Specchio, 3 ottobre 2021
Lunga intervista a Fabio Fazio
Fabio Fazio ha intervistato un milione di persone (o forse due) e sa dove si nascondono le insidie di un’intervista. Quando si è intervistati la peggiore è passare, alla fine, per quello che non si è. Quindi tanto vale essere sinceri. Anche nelle domande.
Con tanti anni di carriera e successi, lei si è mai montato la testa?
«Guardi, io un po’ per scaramanzia e un po’ per concretezza ligure - che non abbandono - non ho mai nemmeno per un momento creduto troppo in quello che stavo facendo, in questo lavoro. Una delle più belle e importanti serate della mia vita, una di quelle in cui ho imparato più che altrove, ero con mia moglie, Dori Ghezzi e Fernanda Pivano. Ho avuto la fortuna di frequentare Fernanda e a cena lei raccontava storie meravigliose dei grandi autori che aveva conosciuto e frequentato. Così le chiesi che cosa le avesse lasciato Hemingway: lei raccontò che una volta Hemingway le disse che aveva corretto poche settimane prima un tema di una delle nipoti e che fece una croce sulla prima parola del tema: era il pronome io. "Non si deve mai pensare e tantomeno scrivere una frase usando il pronome io", le disse. E’ per me una delle prime regole in televisione. Ma anche a casa, in famiglia, con i figli».
Lei non usa mai "io", ma anche con il "loro" se si tratta di moglie e figli, non è prodigo di dettagli. Cosa ha cambiato nel suo rapporto con il lavoro diventare padre?
«Tutto, è cambiato tutto. Anche prima non ero una persona concentrata solo su se stessa e il lavoro, però con i figli tutto diventa diverso. I figli aiutano ad avere una visione relativa delle cose. L’influenza, un figlio con la febbre diventa tutto quello che è importante. Più di una minaccia nucleare. Il privato nelle situazioni più estreme conta più di una guerra».
Lei che padre è?
«Sono stato definito padre orsacchiotto, peluche, giocattolo. Non riesco a essere severo. Ogni tanto mi viene detto, "dovresti arrabbiarti!". Però, ecco, non mi riesce, delego».
Sarà contenta sua moglie di avere il ruolo di poliziotto cattivo.
«Semplicemente, senza di lei non avrei mai potuto avere due figli. Ha deciso di fare la madre a tempo pieno, una scelta di grande sacrificio che ci ha permesso di crescere e vivere la nostra famiglia».
Ha ancora i suoi genitori, come hanno vissuto la sua popolarità televisiva?
«In realtà in maniera molto semplice, nel senso che in casa non parliamo di televisione e la televisione non è al centro dei nostri rapporti. Mia madre ancora oggi sulle cose di televisione tende a fidarsi più dell’ufficialità dei giornali che di me. Anche con mia moglie e i miei figli non parliamo di tv e la televisione in casa nostra è chiusa dietro a due sportelli. Per i ragazzi credo sia giusto non esagerare».
In compenso lei era un ragazzino quando ha iniziato a lavorare in tv. Ricorda il giorno del debutto con Raffaella Carrà nel 1983?
«Come no, avevo diciannove anni. Da Savona mi portò a Roma mio padre in macchina. Quella con Raffaella credevo davvero che sarebbe stata la prima e ultima volta in tv. Sono andato lì, ho conosciuto tutti, mi sono fatto fare decine di autografi. Era meraviglioso, la televisione era come la Luna, come andare sulla Luna. Era come se fossimo usciti dagli anni 60. Anche oggi è così, bisogna farla tenendo i piedi per terra. Ma quella trasmissione fu una cosa moderna e rivoluzionaria, erano le prime puntate e ancora nessuno immaginava il successo che sarebbe diventato Pronto Raffaella. Ho vivido il ricordo dei colori dello studio, della musica dell’atmosfera, c’era tutto quello che era la Rai, il sogno della Rai. Negli anni la Rai è diventata Rai senza articolo. Ma "la Rai" era la memoria collettiva, era il terreno dello scandalo intellettuale che ha costruito un’estetica».
Cosa rimane di quella Rai?
«Poco, restano le teche, il monoscopio, ogni tanto trovi delle antiche vestigia di microfoni. Le persone sono certamente cambiate. Spero e sono convinto che tornerà centrale il prodotto. Non in quel modo di allora, certo, ci trasformeremo in una grande piattaforma. Ma devono tornare i contenuti al di là del vettore, della piattaforma orizzontale dove ogni fruizione è istantanea».
Ha visto il programma di Cattelan? Era molto denso di contenuti.
«Sì, ho visto la prima puntata. Penso che Cattelan abbia indiscutibilmente talento e penso che avrebbe dovuto essere protetto. Un esordio così impegnativo non lo ha aiutato, ma sono sicuro che il suo talento gli consentirà di trovare altro».
Quando lei è entrato in Rai l’azienda aveva ventinove anni. Ora lei è in Rai da trentanove. È pronto per un memoriale da grande vecchio?
«Ho fatto la promessa a me stesso e agli altri di non scriver mai un’autobiografia: perché non ho memoria e perché non è il caso. Rimangono, invece, di tutti questi anni frammenti e ricordi confusi degli incontri, che ti va magari con te stesso di romanzare. Ma un memoriale sulla carriera mai: un po’ per scaramanzia e un po’ perché dal primo giorno mi sono sentito estraneo a questo ambiente».
È curioso, perché lei ha creato uno stile molto personale nelle sue trasmissioni, basato anche sui suoi modi e i suoi toni. Ma lei è sempre un po’ di lato, un po’ in secondo piano rispetto alla centralità della storia che sta raccontando. È più una questione di stile o di timidezza?
«Sono due cose complementari. La timidezza c’è, l’ho sempre avuta, ho sempre pensato che questo lavoro fosse una parentesi e che prima o poi avrei fatto un lavoro vero. C’è anche un po’ di pigrizia. Ma c’è anche il fatto che non ho mai smesso di meravigliarmi di dove sono e delle cose che sto facendo. Ho cominciato che ero un ragazzino. Sono passato dal liceo alla televisione e ancora adesso quando torno a casa in Liguria, cioè sempre, i miei genitori sono lì, la mia vita è lì. Intimamente sono ancora agli anni ’80, ho questa sensazione malinconica e consolatoria. In realtà non mi sono mai sentito completamente parte di una cosa che amo talmente tanto che ho paura di perderla».
In questa "cosa" ci sono stati molti incontri fortunati.
«Sì, per venticinque anni sono stato in radio al fianco di Enrico Vaime con Black Out. Enrico è (non voglio dire era) una delle persone alle quali voglio più bene. Mi ha insegnato tutto. Insieme con lui in quel programma c’erano Luciano Salce e Guido Sacerdote che, insieme con Bruno Voglino - che io chiamo mamma - mi ha fatto il provino quando avevo 18 anni e un giorno».
Voglino con Marino Bartoletti la portarono nel programma che segnò la svolta per la sua carriera, Quelli che il calcio. Anche se a condurlo non doveva essere lei ma Dario Fo.
«Sì, avevano scelto di affidare un programma a Dario Fo, ma lui, per mia fortuna, rifiutò. Così con Voglino e Bartoletti entrammo in un territorio tutto nuovo. Quelli che il calcio è stato un’invenzione. A partire dal titolo. A quel tempo facevo le serate del settimanale Cuore con Michele Serra e avevamo la canzone di Jannacci in chiusura: così pensai di usarla anche per quel nuovo progetto. L’apparente sgrammaticatura ci portò benissimo. Il programma fu totalmente sgrammaticato. C’era dentro una creatività pazzesca, grande improvvisazione. Il numero zero fu la cosa più incredibile. Provammo la trasmissione, che seguiva le partite del campionato di calcio, durante la prima o la seconda giornata di Serie A del 1993. Andammo in onda la terza giornata. E dopo quel primo tempo di prova eravamo distrutti: tutte le partite erano rimaste sullo 0-0. Non era successo niente, tutti dicevano che il programma era lento. "Come cavolo facciamo a fare un programma se non succede niente?". Eravamo spaventatissimi, e invece il andò benissimo dalla prima puntata. Negli anni ha fatto la media del 30 per cento di ascolti».
Lì è nato lo stile che ha contraddistinto i suoi programmi, Anima mia, il Festival di Sanremo, Che tempo che fa.
«Da quella cosa è nato uno stile di frammentazione, di discorsi continuamente interrotti. Era come aprire un baule di giocattoli, tirarne fuori uno e iniziare a giocare».
Il suo è ancora un gioco?
«Sì è ancora un gioco. Nonostante Che tempo che fa non sia Quelli che il calcio. Siamo più maturi ma c’è "Il tavolo" che è di nuovo una jam session di devozione arboriana».
Lei è buonista?
«Tra le accuse che mi hanno fatto, quella di buonismo devo dire che non mi ha mai tolto il sonno».
Tra le altre accuse ci sono state negli anni quelle mosse contro di lei soprattutto dalla Lega, in maniera piuttosto violenta.
«Mi è stato riservato un trattamento abbastanza unico. Gli attacchi sono stati molto pesanti. Sono onde che passano, non fa piacere, ma bisogna avere la forza per affrontarle. Adesso si parla della "bestia": quando sei vittima dei quel meccanismo la violenza verbale è fortissima».
Cosa ha pensato di fronte alle indagini della procura di Verona per cessione e detenzione di stupefacenti nei confronti di Luca Morisi, la persona che ha gestito le campagne di comunicazione della Lega di questi anni?
«Da parte mia non ci sarà mai nessun tipo di scortesia nei suoi confronti in questo momento e quando uno si trova una vicenda così grave bisogna avere rispetto. Ma trovo che sia estremamente più grave che abbia contribuito in questi anni a creare un danno culturale. La costruzione di una violenza verbale inaudita contro gli altri è stata grave. Non basta chiedere scusa».