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 2021  ottobre 03 Domenica calendario

Intervista a Niccolò Campriani

«Le medaglie sono una conseguenza. Considerarle l’obiettivo mi fa paura». Niccolò Campriani di medaglie olimpiche nella carabina ne ha vinte quattro, tre d’oro e una d’argento, fra Londra 2012 e Rio 2016. Sa di che cosa parla. Dopo Rio ha chiuso una carriera agonistica durante la quale è riuscito a prendersi anche due lauree, a Tokyo è andato come allenatore di due tiratori del team dei rifugiati. Lavora al Cio, e parlare con lui di sport apre sempre molti orizzonti.
Valentina Vezzali dice che siamo pieni di medaglie, ma quintultimi in Europa per praticanti sportivi, un popolo che lo sport lo vive soprattutto sul divano. Colpa anche del dialogo difficile fra istruzione e sport?
«I dati non li conosco, non so commentarli. Sono ormai dodici anni che manco dall’Italia. Posso però parlare della mia esperienza personale. Se nel 2009 andai negli Usa non fu perché a Morgantown (sede dell’Università del West Virginia, ndr) si viveva o mangiava meglio che a Firenze, ma perché volevo laurearmi in ingegneria e andare alle Olimpiadi, senza che uno dei due obiettivi schiacciasse l’altro. E fu una scelta forzata».
In Italia la scuola guarda in cagnesco gli sportivi?
«Faccio volentieri l’avvocato del diavolo e dico che c’è anche una parte del mondo sportivo che non vede di buon occhio gli impegni accademici. Le nostre delegazioni alle Universiadi sono sempre ampie, però c’è chi ha fatto tre o quattro Universiadi e non si è mai laureato. Non mancano esempi eccellenti. È un indice un po’ problematico…».
Come funziona il sistema americano?
«Nella Ncaa hai un certo numero di esami da sostenere entro l’anno, con una media da tenere, se sgarri smetti di essere eleggibile per l’attività sportiva. Per me è stata una bellissima esperienza di vita, che mi ha portato a fare il salto di qualità tecnico, da cui sono scaturite le medaglie di Londra e Rio, a laurearmi in Ingegneria e a prendere una seconda laurea specialistica in Inghilterra. Mantenere l’equilibrio mi ha consentito di dare il meglio sia sui banchi di scuola sia al poligono».
Negli Usa i due aspetti sono compatibili?
«Sono funzionali. Proprio perché non facevo solo lo sportivo probabilmente ho vinto delle medaglie in più. Ma grazie allo sport ho sviluppato caratteristiche e un livello di intelligenza emotiva che ora mi danno una marcia in più nella vita e nella gestione delle risorse umane. A Londra 4 medaglie su 5 nella carabina sono andate a studenti-atleti della Ncaa, a Tokyo il mio successore studia all’Università in Kentucky. So che sembra incredibile, ma investendo sulla persona si investe anche sull’atleta».
È un sistema importabile in Italia?
«Io ci ho provato, nel 2017, quando il ministro dello sport era Luca Lotti abbiamo presentato un programma impostato su alcuni sport specifici e alcune Università, non solo private… Ma si deve essere perso in qualche corridoio. Sarebbe bellissimo se gli italiani non fossero costretti ad andare negli Usa. E sa che spettacolo vedere i migliori atleti del mondo venire a studiare da noi? Non ho perso la speranza, prima o poi tornerò anch’io. Va però detto che gli Usa sono un po’ la mosca bianca, un sistema del genere funziona quasi solo lì. Ma ce ne sono altri».
Ad esempio?
«Quello giapponese dei gruppi aziendali. La Toyota o la Sony pagano a tempo pieno un giovane che la mattina lavora come tutti, e il pomeriggio si allena. Un domani potrà decidere se rimanere in azienda, comunque avrà qualcosa da scrivere sul curriculum».
Da noi funzionano quasi solo i gruppi sportivi militari.
«Anche io vengo lì, e non ho nulla in contrario, per carità. Ma siamo sicuri che tutti i nostri olimpionici da grandi volessero fare i carabinieri, i finanzieri o i poliziotti? Chi preferiva diventare avvocato o medico ha dovuto smettere, o ce lo siamo perso?»
Domande scomode. Suggerimenti?
«Si tratta di trovare un modello sostenibile. E di prendersi delle responsabilità. Non puoi costringere la scuola a inseguirti, ma bisogna pensare anche a chi entra giovane nel sistema e considera l’allenatore non solo un tecnico, ma un mèntore, una guida. Io sono entrato in nazionale a 14 anni, nella scuola ho trovato l’insegnante che mi interrogava al lunedì dopo la trasferta, ma anche il direttore sportivo che mi diceva che dovevo scegliere, o il raduno o l’esame all’Università. Sono due mondi che vanno avvicinati».
Come si supera l’angoscia del medagliere?
«Le medaglie non dicono sempre la verità. Possono servire come indicatori, ma non da sole. Non deve passare l’idea che se fai un 10 sei un dio e se fai 7 o 8 non vali nulla. Il bersaglio che conta è un po’ più grande. Se cresciamo sempre più ragazzi che grazie allo sport imparano a gestirsi meglio e sanno trasferire nella vita quello che imparano in campo o in palestra, ci saremo garantiti un bacino ampio, capace di produrre altri Tamberi o altri Jacobs. Poi bisogna pensare a che cosa potranno restituire gli atleti alla società. A 35 anni, finita l’attività sportiva, inizia il secondo tempo della vita. L’idea di campare di ricordi, personalmente mi angoscia».
I successi sportivi l’hanno aiutata a inserirsi mondo del lavoro?
«Nonostante gli ori e le lauree, più un anno alla Ferrari, ho faticato molto a superare la distanza con i miei coetanei che avevano già 5 o 6 anni di esperienza lavorativa. I primi colloqui sono stati durissimi, un bagno di umiltà che consiglio a qualsiasi campione olimpico. Poi ho capito che dovevo metterci la stessa cattiveria e determinazione che in gara».
Le Olimpiadi, insomma, non bastano.
«Le Olimpiadi sono un trambusto di sedici giorni, nel quale cerchi di sopravvivere. Quello che ti resta davvero sono i quattro anni in mezzo, in cui conosci persone che ti cambiano la vita, vedi posti nuovi, impari a prenderti cura di te anche fuori dal campo di gara. Salire sull’aereo che ti porta ai Giochi sapendo chi sei, glielo assicuro, è una cosa enorme».