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 2021  ottobre 01 Venerdì calendario

Su "Stirpe e vergogna" di Michela Marzano (Rizzoli)

Il segreto di famiglia è custodito nel certificato di battesimo del padre. Accanto al nome di Ferruccio c’è quello di Benito, ed essendo l’anno il 1936 non è difficile capire chi sia l’ispiratore. Ma perché il professor Marzano, compagno di studi ad Harvard della migliore intelligenza progressista, l’ha sempre tenuto nascosto ai figli? E quale storia inconfessabile si cela dietro lo sfacciato omaggio al dittatore?

"Tuo nonno era fascista". Da questa confessione paterna parte il nuovo romanzo autobiografico di Michela Marzano, Stirpe e vergogna, forse il suo più difficile. Non solo perché affronta la protratta rimozione a casa della memoria nera di Arturo Marzano, squadrista della prima ora e tra gli artefici della Marcia su Roma. Ma anche perché in questa opacità intorno alla figura del nonno, epurato nel 1944 e inchiodato per vent’anni su una sedia a rotelle dopo l’esperienza parlamentare nel partito monarchico, hanno origine la disperazione del padre, le sue ossessioni, l’allergia a ogni sorta di joie de vivre respirata nelle stanze domestiche. Far luce su quel dolore trasmesso ai figli sembra quasi impossibile, forse un atto crudele. Ma nella verità, annota la lettrice di Jung, è anche la cura della malattia.

Intimissima e insieme pubblica, la recherche di Michela Marzano si misura anche con i silenzi d’un Paese che non ha mai davvero fatto i conti con la sua storia. Nelle reticenze dei suoi genitori si riflettono i non detti di una collettività che ha faticato ad ammettere compromissioni e connivenze famigliari con un regime violento. E lo stupore dell’autrice è proprio di chi si è sempre creduto dalla parte giusta della storia - quella che ti trasmette i valori belli dell’eguaglianza e della giustizia - per poi scoprire le proprie origini nel campo avverso, tra le ombre più fosche del Novecento.

Nonno Arturo non era un fascista come tanti altri, costretti da uno Stato totalitario. Lui ci aveva creduto fin dal primo momento, fin dall’iscrizione ai fasci di combattimento di Lecce nel 1919. Incoraggiata da un’enorme quantità di medaglie, lettere, documenti rinvenuti nella casa paterna di Campi Salentina, la nipote ricompone la figura negata del padre di suo padre, andando alla ricerca delle sue ferite sul Carso, della prigionia in Ungheria nella "città dei morti", dello spaesamento del reduce una volta tornato in patria. La sua storia ricalca quella d’una generazione che nel primo dopoguerra affidò alla violenza del fascismo il proprio risentimento, scegliendo di rimanervi fedele con dissennata caparbietà anche nell’esercizio della professione. Porta la sua firma di magistrato la condanna al massimo della pena d’un gruppo di contadini pugliesi colpevoli d’aver intonato Bandiera Rossa.

Per il nonno dalla parte sbagliata non c’è alcuna attenuante. I suoi cedimenti vengono riferiti con severo puntiglio dalla discendente tradita che arriva a mettersi nei panni del suo giudice supremo quando il 28 novembre del 1944 il procuratore regio Arturo Marzano viene convocato davanti alla commissione per l’epurazione, nella parte d’Italia già liberata. Il presidente Giuseppe Pagano è un ebreo che è stato costretto ad abbandonare la magistratura dopo le leggi razziste del 1938. Come può guardare quell’uomo che aveva fatto carriera proprio negli anni della persecuzione antisemita? Insindacabile la sentenza d’epurazione, insieme alla domanda: perché solo lui? Perché non furono allontanati magistrati di più alto rango, personalità del rilievo di Antonio Azara e Gaetano Azariti, destinati a prestigiosi incarichi nel dopoguerra? E quali conseguenze morali porta il mancato confronto con le nostre colpe?

Ricostruita come in un romanzo di Javier Cercas, la storia del passato si incrocia con il presente, e l’acquiescenza di allora si sovrappone al conformismo crescente degli innumerevoli Signorsì in ogni campo: anche nel partito democratico renziano di cui Marzano fece esperienza nella sua attività parlamentare. Amnistia, quella storica concessa da Togliatti, ha la stessa radice di amnesia, il vuoto di memoria in cui gli italiani hanno vissuto per svariati decenni. Ma c’è una terza parola comune alle due precedenti, che è anamnesi: la storia di una persona - e di un corpo sociale - nella patologia.

Nell’anamnesi narrativa di Michela Marzano non vi sono confini tra storia, psicoanalisi, filosofia morale. La memoria è innescata da un’interrogazione costante su tutto: su di sé, sulla qualità delle relazioni umane, sull’eredità di sangue e di stirpe, nozioni giustamente esecrate, eppure presenti come "identificazioni inconsce che possono avvelenare la nostra esistenza". Fare ordine in questo disordine può essere un’impresa improba. Ma per essere noi stessi, ci avverte Oliver Sacks dall’esergo, dobbiamo possedere la storia del nostro vissuto.

L’autrice del romanzo (romanzo?) ci ha provato con un coraggio esemplare. E anche quando mostra le proprie fragilità - il tentativo di suicidio, la maternità mancata, l’impossibilità di essere felice - riesce a toccare le corde profonde di una tragedia collettiva.