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 2021  settembre 28 Martedì calendario

Da "Caravaggio e Vermeer. L’ombra e la luce" di Claudio Strinati (Einaudi)

La luce del Caravaggio e la luce di Vermeer sono due veri e propri simboli dell’intera storia dell’arte universale. La luce del Caravaggio è fondamentalmente l’ancestrale ed eterna lotta tra ciò che è limpido e ciò che è tenebroso. Mai si era vista nella pittura dell’Occidente una simile idea figurativa. Il pittore all’interno di questa elementare e insieme abissale dialettica arriva a rappresentare il buio in sé. Tuttavia il buio non può essere rappresentato, perché dentro il buio assoluto c’è solo il buio stesso che, però, confina con la non visione, con la cecità.

Nei capolavori assoluti del Caravaggio, dal supremo simbolo del bene delle Sette opere di Misericordia di Napoli al supremo simbolo del male della Decollazione di san Giovanni Battista di Malta, la luce abbacinante che plasma le figure e definisce lo spazio emana direttamente dal buio senza passaggi intermedi. Caravaggio non conosce la penombra, o perlomeno non ce la suggerisce, perché non conosce il criterio dello sfumato che fu di Leonardo da Vinci e di tutta la sua scuola, veneta e lombarda. O l’immagine c’è, quindi è presente nel quadro, o non c’è nulla.

Così sono i suoi lavori di massimo impatto e potenza visiva come i laterali della cappella Cerasi nella chiesa di Santa Maria del Popolo, cui attese nel momento culminante della sua breve ma gloriosa carriera. Qui, nella Crocifissione di san Pietro, il santo viene legato alla croce a testa in giù, come racconta la leggenda che Caravaggio illustra con scrupolo narrativo e si direbbe documentaristico. Ma ciò che è rappresentato è rappresentato nel nulla...

I personaggi sono in un non luogo e li vediamo come immobilizzati in un momento che è nello stesso tempo di noiosa e pesante quotidianità e di fatale e terribile eternità. Sul lato opposto della cappella c’è la tela della caduta di Saulo ed è ancor più opprimente e costrittiva. La scena prevede che il soldato romano Saulo si stia recando a Damasco per organizzare e dirigere un’operazione repressiva contro uno sparuto gruppetto di cristiani della prima ora. Mentre cavalca sulla piana il Cristo si manifesta fragorosamente dal cielo apostrofandolo con una frase terrificante: "Perché mi perseguiti?" e Saulo, terrorizzato da quella voce metafisica e tonante, cade a terra accecato dalla luce emanata dal corpo mistico del Cristo. I compagni intorno accorrono per proteggerlo, lo sollevano da terra e, accortisi della sua cecità, lo portano nel tempio dal gran sacerdote Anania che gli restituirà la vista. Il milite romano comprenderà finalmente che è stato Gesù stesso a metterlo alla prova: caduto a terra come pagano feroce persecutore, ora Saulo risorge in Cristo e diverrà il defensor fidei, il paladino della nuova religione...

Caravaggio, invece, nel quadro di Saulo della cappella Cerasi non vede nulla intorno al santo. Non c’è la piana di Damasco, non ci sono i commilitoni che lo assistono, non c’è la figura e la voce del Cristo manifestatosi oltre le nuvole. Ci sono soltanto Saulo e il suo cavallo, posto che sia veramente quello su cui stava cavalcando e che ora tenderebbe a scorrazzare libero e calmo sulla piana mentre i compagni lo riacciuffano e lo riportano alla normalità...

Quel quadro è l’immagine universale della nascita del cristiano. La stalla non si vede, ma se ne intuisce lo spazio angusto e costrittivo. Quasi non c’è la possibilità di muoversi bene lì dentro. Eppure Saulo, nel racconto degli Atti degli Apostoli, è caduto su una immensa spianata e Cristo ha squarciato i cieli ed è come se gli fosse piombato addosso. Nella maggior parte delle raffigurazioni di questo soggetto antecedenti al Caravaggio, Saulo si copre il volto col gesto istintivo di chi è accecato da una luce improvvisa e violentissima. Il Saulo del Caravaggio, invece, non si copre il volto. È il milite che, rinato in Cristo, si predispone a librarsi nella dimensione del Regno che arriva e che si manifesta in una stamberga cupa e opprimente.

Lo spazio rappresentato da Michelangelo Merisi in realtà non è stretto, o meglio, non è né largo né stretto: è il buio. In questi due quadri della cappella Cerasi il Caravaggio aveva dato una lezione all’universo mondo. Lezione di una sintesi visiva di sconcertante evidenza e insieme di allucinata assurdità. Il contraccolpo tra l’illuminazione fortissima e il buio assoluto, per come lo si vede in un capolavoro quale la caduta di Saulo, cancellava l’idea del contrasto luce-tenebre che aveva nutrito tanti aspetti delle arti figurative nel corso di quel secolo XVI che si era appena chiuso e che gli storici avrebbero poi chiamato del manierismo internazionale.

Il manierismo forse non è mai esistito in quanto tale, ma alcuni aspetti espressivi e stilistici della pittura del Cinquecento erano ben chiari alle menti degli esperti d’arte del tempo e anche dei nostri tempi. La luce e l’oscurità erano state praticate da innumerevoli sommi maestri di quel secolo meraviglioso, nell’ottica della dialettica aristotelica fondata sul ragionamento inerente alla risoluzione dei contrasti, che trova nel sillogismo il suo metodo di applicazione più convincente. Per arrivare alla certezza della verità dobbiamo formulare una tesi, un’antitesi e una sintesi che è appunto la soluzione. Vale più che mai per le arti figurative. Caravaggio aveva tutto questo dietro le sue spalle.