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 2021  ottobre 10 Domenica calendario

Biografia di Jacopo Fo raccontata da lui stesso (prima e seconda parte)

Che poi il caso diventa solo una scusa, una parabola della mediocrità. Non si è geni a caso. Artisti a caso. Uomini a caso. Cittadini a caso.
Dario Fo non è casualità. È stratificazione e sintesi di una piramide di storie. “Per comprendere la sua arte ho rivisto a rallentatore, fotogramma per fotogramma, gli spettacoli. E lì ho capito. Ho capito che sul palco, solo lì, apriva la sua cassaforte delle emozioni, del dolore, dei traumi, della follia, della guerra. E diventava un mistero”.
Chi parla è Jacopo Fo, 66 anni, testimone consapevole di un mondo. Il suo mondo. Che per molti è anche parte di un mondo collettivo. Non utilizza parole a caso, concetti vacui, non si nasconde dietro la retorica, dietro la poesia forzata; non si cela dietro la banale consapevolezza di essere figlio ed erede di una magia umana e artistica, di un sodalizio naturale, dove Dario Fo e Franca Rame andrebbero pronunciati senza pausa. E il tredici ottobre sono cinque anni dalla morte del padre.
Passati cinque anni, la prima immagine.
Gli ultimi giorni in ospedale: scioccanti; (pausa) ha affrontato la morte in maniera consapevole ma fingendo di niente: voleva dipingere le pareti della stanza per materializzare le allucinazioni che viveva a causa delle medicine.
Artista fino all’ultimo…
Non voglio mitizzare quella situazione, perché era spaventato; con un nostro amico, Doriano Cranco, si era sfogato: “Sto lottando come un leone”, mentre con me si comportava senza tentennamenti, mi parlava di progetti, di idee, di spettacoli da realizzare negli anni successivi; (cambia tono) è stato un bel modo per affrontare gli ultimi giorni, perché lui, al di là dell’ictus del ‘97, è sempre stato bene; anche dall’ictus uscì dipingendo otto ore al giorno, eppure riusciva a vedere solo una striscia verticale di un centimetro: l’attività del cervello per curare il cervello.
Quando pensa maggiormente a suo padre?
In questo periodo sto realizzando la regia di un’operetta, La serva padrona, e ho il problema dei costumi da invecchiare; (sorride) era il 1963 e mia zia costumista si presenta con tutti i vestiti della corte del Re di Spagna. Vestiti perfetti, bellissimi, di tessuti pregiati. Mio padre li stende a terra e inizia a sporcarli con spray di vari colori. Io piangevo, credevo fosse impazzito, in realtà li stava rendendo adatti al teatro, altrimenti con le luci sparate sarebbero sembrati finti perché lucidi.
Nel libro ricorda che una delle regole di suo padre era di non mollare mai. E lei aggiunge: “Non mollare può diventare l’anticamera del martirio”.
Per questo ho dovuto consultare uno psichiatra bravissimo, proprio per capire cosa mi scatta nella testa. “Dottore, non posso smettere di fare quello che sto facendo, qualunque cosa succeda”. E lui: “Perché, se ti fermi cosa accade?” Dopo la domanda sono andato in crisi, nella mia mente non esisteva quel quadratino, non esisteva il diritto di buttarmi in terra e piangere. Da questo punto di vista la mia famiglia era disumana.
Anche sua madre?
Lei urlava, piangeva, emetteva emozioni, però all’atto pratico era un carro armato, non in grado di deviare dalle sue azioni; azioni gestite in chiave fisiologica, quasi animalesca.
Mentre suo padre.
Uguale ma senza piangere e senza urlare.
Mai?
Ricordo mamma dopo il rapimento: era in casa, distrutta, piena di bruciature, sangue, tagli. Qualcosa di incredibile. Eppure non volle andare in ospedale. (pausa lunga) È toccato a me medicarla. Io e lei. Soli. Quando finalmente è riuscita ad addormentarsi, sono tornato in salotto e ho trovato una decina di amici, seduti dappertutto, l’appartamento era piccolo, e mio padre in piedi. Immobile. In silenzio. Per questo mi sono avvicinato e l’ho abbracciato, quasi con rabbia, come per spronarlo a parlare. A chiedermi qualcosa.
Invece?
Niente. Col senno di poi sono certo che ha passato delle notti allucinanti. Ma restava impassibile. (Pausa) C’è un architrave nella cultura delle mie due famiglie.
Cosa intende?
Da una parte proveniamo da marionettisti, dei paria, quelli che oggi potremmo definire degli zingari. Ed erano i miei bisnonni da parte di mamma; fino a quando arriva mia nonna, figlia di un ingegnere; nonostante lo scandalo e l’opposizione dei suoi, decide di sposare uno zingaro. Lei era bellissima, religiosa, precisa, maestra elementare, una donna di ferro in grado di organizzare una famiglia di gitani.
Un esempio.
Con lei era vietato accamparsi: a ogni tappa della tournée dovevano costruire una casa utilizzando le scenografie; mamma è cresciuta nella stanza della regina, piuttosto che della fata, le finestre erano finte ma il panorama raccontava di mondi meravigliosi pure se irreali.
Gli altri nonni?
Contadini della zona di Alessandria; nonna raccontava le storie dei partigiani, storie incredibili ma più vere di quelle che si possono trovare sui libri. Prese le distanze dal marito: continuarono a vivere insieme ma ognuno portava avanti la Resistenza per i cazzi suoi.
Come mai?
Nonno era un cagone secondo lei, si occupava solo di far scappare gli ebrei in Svizzera; (pausa) venne arrestato e poi liberato grazie alla testimonianza di un gruppo di fascisti… (sorride e devia leggermente dal discorso) Mio padre era un imboscato dentro l’esercito, non partecipava alle comuni manovre con la scusa che era un pittore; poi il suo colonnello lo prese da parte e gli spiegò che c’era la guerra e che la storia non reggeva più, quindi papà si procurò i documenti falsi e scappò.
La battaglia di sua nonna in cosa si differenziava da quella del marito?
Lavorava con i gappisti; nonno no.
Bel mix di nonni.
Torno al punto: da noi non si molla. E con un sottofondo che recita: l’esistenza è uno scontro infinito. Questo approccio è ancor più forte per chi nella vita fa il buffone: quando mio padre era immobile in quella cazzo di stanza, non aveva bisogno di parlare, era come se dentro di sé dicesse: è successo, l’avevamo messo in conto. Basta. Chiuso.
Sua madre spronava suo padre?
Altro approccio, anche fisico: mamma tirava dei gran schiaffi, a volte a sproposito, anche quando avevo ragione; un giorno me ne mollò uno perché lei non aveva capito un problema di aritmetica. Alla fine comprese l’errore e mi chiese scusa.
I no di suo padre.
Molti genitori non capiscono la forza di un comportamento coerente: non servono i “no”, basta la pratica dell’esempio. (Pausa) Una mattina mamma legge il giornale e trova la storia di un signore svenuto perché non mangiava da tre giorni mentre cercava lavoro. Aveva tre figli. Siamo partiti, tappa al supermercato, e poi diretti a casa sua con in mano quattro scatoloni e un assegno. Da quel giorno lo ha finanziato fino a quando non ha trovato lavoro.
La reazione del lavoratore?
Come se avesse di fronte la Luna; avevo 12 anni e mi rendevo conto di aver visto una persona sorridere dentro. E ho chiara pure l’emozione di mia madre: chi regala ha più di chi riceve.
Suo padre la seguiva in queste operazioni?
In generale mia madre sentiva il bisogno di andare di persona e la gente si stupiva di trovarsi davanti un personaggio conosciuto, uno schianto dal punto di vista estetico, vestita come una circense elegante, quindi con pelliccia e tacchi.
Lei viveva perennemente in mezzo a uno spettacolo.
Sì, ma era pure pesante; in casa arrivava un po’ di tutto, e mamma è stata sempre malata; (ride) anche le situazioni comuni per i più, con noi diventavano delle avventure.
A cosa pensa?
Una mattina alle sette partiamo in macchina per Francoforte: a mezzanotte eravamo ancora in Svizzera, a duemila metri, con la strada che finiva in un ghiacciaio e davanti a noi la sola salvezza di un albergo dotato di ristorante.
La Svizzera?
Sbagliammo strada di 500 chilometri; mio padre, nonostante fosse architetto, non capiva le carte stradali e si ostinava a decidere la direzione.
Sua madre zitta?
Guidava sempre lei, per fortuna papà non aveva preso la patente e non capiva un cazzo di strade, eppure pretendeva di indicare il dove; mamma sapeva guidare, capiva di strade ma lo assecondava per evitare discussioni; (sorride, molto) un’altra volta a mezzogiorno e mezzo, piena estate, in una Pordenone deserta, cercano qualcuno per chiedere informazioni. Vedono una ragazza, mamma inchioda, papà scende, la insegue, la chiama, la ragazza si gira e inizia a correre. A papà erano caduti i pantaloni ed era rimasto in mutande. Mamma si stava sentendo male per le risate e io terrorizzato pensavo: costui dovrebbe proteggermi.
Quando ha inquadrato la sua famiglia come speciale?
Da piccolo non avevo metri di paragone, solo alle medie ho intuito che provenivo da “marziani”; (pausa) non capivo di calcio, di musica, di auto. Capivo la storia del Vietnam, la Rivoluzione cinese, Barbarossa contro i milanesi o Prevert.
Come interagiva con i bambini?
Un dramma. Anche al liceo c’era poca gente con la quale potevo confrontarmi, e l’altro dramma è che non riuscivo a scindere la comunicazione verbale dall’attrazione sessuale: ho rinunciato a ragazze bellissime, che magari ci stavano, ma a un certo punto me ne andavo con la frase “non posso stare qui, non parliamo di niente”. E fuggivo.
Le dispiaceva quando fermavano i suoi per strada?
Papà era contento, per lui il pubblico andava rispettato, con le persone felici perché si fermava, parlava, chiedeva della famiglia e a distanza di anni ricordava le risposte.
Nonostante la distrazione.
Appunto; (pausa) come dicevo, mamma ha sempre assistito economicamente una serie di persone e io mi occupavo, come oggi, della parte pratica; un giorno vado da papà e mi lamento di una delle donne aiutate: “È una rompicoglioni”. E lui: “Non devi parlare così, non conosci la sua storia”. E da lì mi ha raccontato delle violenze subite, i postumi e i dettagli; mentre ascoltavo, pensavo: “Quando ci ha parlato?”
Un padre imprevedibile nella vita ma organizzato nel lavoro…
Viveva per il teatro. Quando iniziava a scrivere un testo entrava in uno stato estatico, e quello stato durava giorno e notte; di notte mia madre si svegliava e lo implorava: “Smettila di pensare non riesco a dormire”. Perché papà, e io uguale, quando rifletteva schioccava l’alluce contro il medio e il rumore non era forte, ma dopo un’ora e mezzo l’irritazione altrui è giustificata.
E con gli attori?
Pazzesco; (silenzio) se riesci a mettere in scena un gruppo di artisti che recitano le tue parole ed eseguono i movimenti indicati, ne nasce sempre un gioco, grazie pure al bravo attore che aggiunge particolari non previsti ma che arricchiscono la scena. Con un però…
Quale?
Mamma doveva imporgli di smettere: papà sarebbe andato avanti all’infinito, si divertiva come un pazzo, anche quando gli attori erano mezzi morti per la stanchezza; ricordo una scena dove si è rischiato lo scontro fisico tra loro.
Che era successo?
Il dramma si è sfiorato nella commedia Isabella tre caravelle e un Cacciaballe, dove era prevista una tempesta e otto attori dovevano muoversi, scontrarsi, cadere a terra e rialzarsi con un gioco geometrico. Provano per una settimana, ed ero piccolo, ma capivo la tragedia, con questi attori a pezzi, in preda a crisi isteriche. Piangevano. Fino a quando ci riescono con i costumi, le luci e i suoni sincronizzati. Felici. Distrutti ma felici. Poi guardano mio padre che sentenzia: “Ok, lasciamo perdere, non funziona”. E lì mia madre voleva assaltarlo.

Gli attori come si rapportavano a lui?

Nessuno riusciva a tenerlo, solo mamma, solo lei poteva dirgli ‘basta Dario, stai esagerando’.

Lavia spiega: “Mi dedico al teatro perché amo il post-spettacolo”.

No, mio padre si rompeva i coglioni. Andavano al ristorante in un’orda di persone, quindi passavano decine e decine di minuti prima che arrivasse qualcosa da mangiare; (sorride) dopo aver varcato la soglia del locale, si toglieva il cappotto ed entrava direttamente in cucina. Nessuno protestava perché era Dario Fo. Allora recuperava un piatto e si serviva direttamente dalle pentole; (silenzio) il bello è che assaggiava e se qualcosa non gli tornava criticava lo chef.

Non si offendevano?

La sua risposta? ‘Se lo chef non è idiota le critiche gli servono’; poi con il piatto pieno si sedeva al tavolo, mangiava, finiva e se ne andava. Ah, la liturgia veniva mantenuta pure se quella sera, con il gruppo, c’era il sindaco o qualche parlamentare.

Sua madre sopperiva?

Neanche tanto, non sono stati bravi a mantenere le relazioni, tanto che non hanno mai ottenuto alcun finanziamento pubblico per il teatro.

Mai?

In sessant’anni neanche una volta, eppure erano primi per incasso, superati solo dalla Rivista.

Neppure dopo il Nobel?

Nulla, nemmeno mai nominati direttori di qualche teatro, o direttori artistici di qualcosa, un cavalierato del lavoro o che ne so. Niente. Non esiste un solo premio, un solo riconoscimento dedicato a loro; (ci pensa) stessa storia con il Pci: nessun appoggio neanche quando lasciarono il circuito ufficiale dei teatri per crearne uno alternativo con l’Arci e il palcoscenico smontabile.

Cosa accadde?

Gli fecero saltare la tournée, a quel punto mia madre si presentò a Roma da Berlinguer, mentre gli fumava in faccia un intero pacchetto di sigarette… (silenzio, ride) Le sigarette erano di Berlinguer: da sempre penso a quanto mi sarebbe piaciuto avere un video di quel confronto, perché so come si poneva mamma, so della sua energia e sorrido a immaginarla davanti a Berlinguer mentre lo fa a pezzi e gliene dice di tutti i colori.

Come finisce?

Che Berlinguer alza il telefono e ordina di ripristinare le serate: erano saltate 35 piazze. Ed è stata la prima e unica volta dell’intervento di un politico a favore dei miei, ma era solo per sanare un sabotaggio di un altro gruppo di politici.

Sua mamma ha salvato la carriera a un ministro democristiano.

Era dotata di un intuito formidabile. Non ricordo dov’era, credo a una festa, comunque entra in un bagno, si chiude dentro e per caso ascolta il dialogo di due donne. Capisce che parlano di un ministro, di un suo imminente viaggio a Città del Messico, e una delle due spiega come lo avrebbero incastrato: ‘Troverà una ragazza bellissima nella hall, colpo di fulmine, camera da letto e telecamere piazzate’.

E sua mamma?

Il giorno dopo trova il numero del segretario: ‘Sono Franca Rame, se per caso il ministro ha in programma un viaggio a Città del Messico, mi chiami’. Dopo pochi minuti ecco il ministro: ‘Come fa a saperlo? È un segreto’. Mamma gli spiega tutto. Da quell’anno, e negli anni a seguire, a Natale ci arrivava un incredibile pacco regalo. Sempre anonimo.

Davvero non conosce il nome del fortunato?

Mai rivelato; come non so il nome del dirigente del Pd che la fece infuriare e la portò alle dimissioni da senatrice.

Come?

Lei iniziò a parlargli dell’uranio impoverito, ma si rese conto che in realtà quello fingeva di ascoltarla, così cambiò discorso: ‘Sai, ho appena accoltellato mio figlio, l’ho fatto a pezzi e ora ho una sua mano nella borsetta. Sta sanguinando in giro. Pure qui in Senato. Cosa ne pensi?’. E lui: ‘Brava Franca, brava’.

In carriera quante recite ha saltato suo padre?

I miei sono andati in scena pure lo stesso giorno della morte delle loro madri e sarebbe stato una vergogna rinunciare; (pausa) fa parte dell’onore dei teatranti: il pubblico è sacro, non puoi deluderlo; sono persone che hanno indossato il cappotto, sono uscite di casa, hanno speso soldi solo per vederti. Io stesso ho recitato in condizioni assurde: ho collassato all’esordio del primo spettacolo con i miei genitori.

Ed è salito sul palco?

Teatro Nazionale di Milano, 1.200 spettatori più le riprese televisive; non ricordo nulla della mia performance: non solo non ho sbagliato una battuta, ma alla fine, mentre me ne andavo, ho sculettato come un selvaggio della Papuasia.

Davvero non ricorda nulla?

Zero, ogni tanto rivedo il video della serata perché lì non ero io ma la “belva”. E questo è il teatro; (sorride) succedeva anche alle manifestazioni: siccome ero un cagasotto, al primo momento di pericolo, sistematicamente, mi arrivava una colica renale. Istantanea. Poi continuavo il corteo, piegato in due, con i miei amici consapevoli ma allucinati; quando poi partivano i lacrimogeni scattava in me una sorta di anestesia totale: mi alzavo ed ero pronto allo scontro.

Suo padre alla “Festa del Fatto” era in forte difficoltà nei movimenti. Sul palco diventò un’altra persona.

Non vedeva nulla! Quando abbiamo realizzato con la Cortellesi le riprese della Callas , in apparenza era perfetto, in realtà era cieco; (ride) papà scrisse la sceneggiatura per un dialogo tra lui e Paola che doveva diventare lo spot dello spettacolo. Prima della stesura finale ci incontriamo con lei a pranzo per una lettura. Papà prende i fogli. Alla fine Paola lo guarda e sentenzia: “No Dario, non va proprio bene”. Io sbianco. Dario è sempre stato uno incazzoso.

E invece?

È scattato l’effetto-Franca: Paola era riuscita a pronunciare un “no” esattamente con il tono e i modi di mia madre e papà era entusiasta. Da lì in poi l’ha amata in maniera pazzesca, perché lei gli diceva la verità, motivandola e con un istinto teatrale straordinario.

Lei era d’accordo con la Cortellesi?

Assolutamente! Però quando ero io a esprimere un giudizio, s’incazzava. E se avevo ragione dovevo dimostrarglielo con il sangue; ricordo le discussioni sulle date nei suoi monologhi: ‘Papà, se è 1720 perché devi dire 1760? Sei un premio Nobel’. E lui: ‘Chi se ne frega! Che importanza ha? Sei noioso’.

Al Nobel c’è stato un rischio…

Nooooo (il noooo è prolungato, sofferto e divertito). È stata una situazione tremenda. Attimi di terrore. E non se n’è accorto nessuno; aveva preso in prestito uno smoking dal suo amico Ferrè, ma sul palco gli sono saltate le bretelle e ha rischiato di restare in mutande come a Pordenone (mentre chiedeva le indicazioni a una passante). Secondo me, in quegli attimi, le nonne si sono riunite per tenergli su le braghe.

Sua nonna aveva predetto il Nobel…

In famiglia ero l’unico pronto a discutere il mistero della vita, argomento vietato in casa, in quanto comunisti; insomma, nonna da bambina, da contadinella, mentre raccoglieva l’insalata nel campo, ha visto una luce, ha visto Dio ed è cascata a terra svenuta. Era convinta di aver vissuto un’esperienza mistica. Dopo tre giorni, nel paesino, è arrivato un indovino e in cambio di quattro uova le ha letto la mano: ‘Avrai un figlio che sarà famoso in tutto il mondo’. Frase che sicuramente ripeteva a tutte.

E…

Mia nonna, per anni, ha massacrato di botte mio padre e il fratello perché non sapeva chi dei due fosse “l’eletto”: proibiva tutto per paura gli capitasse qualcosa. Perché lei ne era certa e lo ripeteva di continuo.

Non scherzava.

Nonna non scherzava quasi mai; una volta ero da lei, caddi in terra e si staccò la pelle del gomito. Un pezzo grosso. Arrivò, mi portò alla fontanella, sputò sulla ferita e riattaccò la pelle. Basta. Finito. Ho ancora una cicatrice allucinante.

Più efficace lo sputo di nonna o il celebre beverone energetico di Jannacci?

Quella di Enzo era quasi magia nera: se una persona normale beveva quella roba e dopo non organizzava qualcosa di pazzesco rischiava l’ospedale; (ride) una volta lo ha provato Paolo Rossi ed è andato avanti tutta la notte a recitare, anche dopo la fine del suo spettacolo e nonostante il teatro fosse chiuso. Alle sei del mattino lo hanno portato in ospedale e sono stati costretti ad anestetizzarlo.

Non è leggenda.

Tutto vero. Con la celebre battuta di Paolo: ‘Enzo si è sbagliato: io sono piccolo, e mi ha dato una dose da grande’.

Suo padre l’ha provato?

Mai. Neanche beveva. Prima dello spettacolo camminava e basta.

Dario Fo sosteneva: “Rubare è da geni, copiare è da coglioni”.

È vero, infatti sono rimasto disgustato per quanto successo a Luttazzi e l’accusa di plagio: Daniele, rispetto al teatro, è uno degli artisti più coraggiosi, e questo coraggio lo ha pagato e lo paga carissimo.

Si è goduto i suoi?

Mi sono divertito come un pazzo. E mi sono sempre ritenuto un uomo fortunato.

Nonostante le chiusure emotive di suo padre.

Rispetto alla manifestazione dei sentimenti viveva una forte difficoltà. (Pausa) Nella sua arte c’è tutto un aspetto di fuga dalla realtà e in parte è la sua grandiosità; creava mondi fantastici, poi nella vita quotidiana c’erano pezzi che non registrava, non si rendeva conto. (Silenzio) Di certe vicende non abbiamo mai parlato: ripenso al rapimento di mia madre, e forse in alcuni momenti avrei avuto bisogno di sfogarmi con lui.

Indole o vita?

Una volta, una sola volta, quando avevo cinquant’anni, mi raccontò una storia terribile: era in treno durante il più grosso bombardamento su Milano e vide una strage, con le persone che gli esplodevano davanti. Lui illeso. In questo ricordo ho avvertito una carica spaventosa di dolore, come se lui avesse subito un trauma primario che l’ha portato a chiudere le porte emotive. Per questo mi spiego certi atteggiamenti, come nel caso di mia madre.

E nella sua arte?

La sua comicità incredibile, il grammelot, era anche un modo per far scatenare la sua parte emotiva incatenata; (cambia tono) nel 1945 aveva 17 anni e visse un altro dramma spaventoso: la morte, la paura, il doversi nascondere per sei mesi in una casa diroccata, con il fratello piccolo che gli portava da mangiare. C’erano lui e la foresta, perché era nascosto in una baita diroccata in montagna; (cambia ancora tono) durante gli spettacoli, nelle improvvisazioni, quando emetteva suoni o eseguiva movimenti strani, pure nel Grammelot, le persone scoppiavano a ridere perché papà era come se rappresentasse un archetipo tragico, ma rovesciandolo. Se uno isola quel grido, quel movimento, è un attimo di follia, di fuga, di negazione della realtà; per comprendere tutto questo ho guardato i pezzi di mio padre al rallentatore, fotogramma per fotogramma, per capire dove il pubblico si esaltava.

Cosa è uscito fuori?

Resta il mistero. Il mistero di dove e perché ridono proprio in punti specifici. L’unica spiegazione è che in quel momento mio padre è alle prese con un movimento, un’espressione non normali. Da pazzo. E per riuscirci doveva entrare in comunicazione con la parte più profonda, più nascosta, più dolorosa di se stesso. Quella parte che non era in grado di reagire alla violenza sulla moglie, perché credeva che nessuna reazione sarebbe stata opportuna, ma aveva il coraggio di farla emergere ogni sera sul palco. E da quel palco non voleva mai allontanarsi.