Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2021
Edmondo De Amicis, l’inventore della «brava gente»
Un breve aneddoto per incominciare. Giugno 2021: due narratori, che si conoscono appena, si incontrano alla Festa del Racconto di Carpi e vanno a cena assieme. Tra un piatto e l’altro il discorso finisce chissà come su Edmondo De Amicis. Che scrittore! E che prosa! Curiosamente si trovano d’accordo (a chi piace davvero De Amicis, oggi?): e i primi a essere sorpresi sono proprio loro. Uno confessa che sta per pubblicare su di lui un intero libro; l’altro di avergli dedicato a sua volta parecchie pagine in un saggio di prossima uscita. La settimana dopo, quest’ultimo telefona a un terzo romanziere per coinvolgerlo in una tavola rotonda sulla narrativa del Risorgimento, e si sente rispondere: «Con piacere. Io vorrei parlare di De Amicis».
Che i tre scrittori del preambolo siano Marcello Fois, l’autore di questo articolo e Paolo Di Paolo importa solo fino a un certo punto. Conta però la coincidenza. Sin dall’inizio a De Amicis non hanno fatto difetto gli avversari, per ragioni letterarie e non; sono stati però soprattutto i narratori a prendere di mira il sentimentalismo sciropposo di Cuore con la loro arma più micidiale: il riso. Dopo le celebri parodie di Umberto Eco, Alberto Arbasino e Achille Campanile sembrava anzi che il discorso fosse definitivamente chiuso. Kaputt! Invece parrebbe proprio che De Amicis abbia trovato dei nuovi, insospettabili ammiratori – con grande sorpresa anzitutto dei diretti interessati.
Il libro di Fois intanto è uscito: nemmeno cento pagine, che si riallacciano idealmente alla grande stagione novecentesca del saggismo letterario, quando era normale che narratori e poeti dialogassero per iscritto coi classici di ieri. E di quella stagione, in effetti, L’invenzione degli italiani possiede parecchie qualità: l’urgenza degli interrogativi che solleva; il piacere del racconto; la rara sapienza delle immagini (come quando Fois ripercorre la storia della narrativa italiana del secondo Ottocento attraverso le allegorie dell’ape, della lupa o della capinera, o quando spiega per quale motivo, se De Amicis fosse uno scienziato, si occuperebbe di «cristallografia bidimensionale»); certi lancinanti squarci autobiografici; un gusto collezionistico per l’elenco che si manifesta per esempio nell’analisi dei cognomi dei personaggi o degli innumerevoli spin off novecenteschi del romanzo. Per Fois, col suo breviario laico De Amicis non avrebbe infatti solo composto un libro di straordinario successo, ma avrebbe cucito addosso agli italiani un vestito con cui coprire i propri difetti, facendo di loro il popolo della «brava gente», che non sa fare il male, perché a commetterlo – si sa – sono sempre gli altri. Alta, altissima sartoria, come si vede.
Del De Amicis di Fois mi piace però soprattutto che sia così diverso dal mio (i veri classici sono amati da ogni lettore per ragioni diverse). Se a lui interessa il pedagogo e il mitografo, io inclino piuttosto per il «fabbro di periodi», che invoca l’ordine e la disciplina militare, sogna di vedere trasformata la caserma in una grande famiglia e la famiglia in una piccola caserma, ma, quando prende la penna in mano, dà prova di essere il più scapigliato scrittore del suo tempo, sovverte la consecutio temporum e sbaraglia sulla pagina il supernemico Igino Tarchetti: che adotta sì le idee più nuove e scandalose (l’abolizione dell’esercito di leva, la discesa nelle insondabili profondità della psiche…), ma continua a rappresentare l’orrore delle cariche di cavalleria in periodi classicamente bilanciati. Gli scettici vadano invece a (ri)leggersi di corsa un racconto perfetto come Quel giorno (sulla disfatta di Custoza).
Rispetto a Fois inclino, soprattutto, per l’ideatore di insolite macchine narrative, a cominciare da quella, così semplice e così geniale, su cui si regge Cuore: il diario scolastico, con le saltuarie apparizioni della voce dei familiari di Enrico e i racconti mensili chiamati a proiettare la sua vicenda su un fondale più vasto, nel tempo e nello spazio. In un periodo in cui i maggiori narratori della penisola scrivevano quasi soltanto dei magnifici romanzi francesi in lingua italiana – seguendo uno spartito che qualcun altro aveva già impostato per loro oltralpe – ecco qui invece una vera trovata originale. Al netto del moralismo indigesto del volume (sì, su questo con Fois non siamo d’accordo…), dovrebbe bastare una simile invenzione ad assicurare a De Amicis un posto di rilievo in ogni ideale antologia della prosa moderna.
Osannato da critica e pubblico sin dagli esordi su «L’Italia militare», Edmondo è il prototipo degli autori precoci, baciati dal successo appena oltre la soglia dei vent’anni: i “poeti benedetti” delle patrie lettere. Curiosamente, però, la sua lezione per chi comincia non suona tanto come un elogio del genio (un mito probabilmente troppo romantico per lui), quanto semmai della perseveranza. Prosatore scioltissimo, De Amicis faticava infatti a costruire delle trame articolate e a lungo si sentì condannato alla misura breve del bozzetto – un personaggio, un aneddoto, il principio di un conflitto e poco altro –, mentre tutti, editori in testa, lo spingevano a tentare il salto verso il romanzo. Sarebbe stato facile cedere; eppure, giudiziosamente, De Amicis non si piegò. E quando si legge Cuore si capisce che è proprio di questo che si tratta: un libro lungo, finalmente, ma assemblato per frammenti e scene autoconcluse. Il libro che tutti attendevano da lui, e tuttavia scritto alla sua maniera. Ah, la terribile tenacia dei mansueti!