Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2021
Quello che il dato del Pil non dice
È da capire quanto e cosa abbia insegnato l’innesto di una crisi nell’altra che da oltre un decennio caratterizza il panorama globale. Una percezione è però diventata più netta, e cioè che delegare la mappatura della performanceeconomica alle cifre della produzione di un mercato sintetizzate dal Pil (Prodotto interno lordo) è insoddisfacente per misurare il mondo attuale.
Da questa consapevolezza – che ha radici profonde nella storia del XX secolo – è nato un rapporto commissionato nel 2008 dal presidente francese Nicolas Sarkozy agli autori di questo libro e al premio Nobel Amartya Sen. Il lavoro, presentato l’anno successivo, mentre infuriava la crisi finanziaria, identificava le debolezze delle metriche in uso e suggeriva la necessità di istituire indicatori adeguati a cogliere i rivolgimenti che il capitalismo maturo ha impresso alle società postindustriali. Nessuno di quei rivolgimenti è, infatti, registrato dal Pil, che si limita a delineare espansione e contrazione senza illustrare, per esempio, gli elementi di benessere o malessere delle comunità. Ed è con questa premessa che da quel rapporto è germogliato un gruppo di lavoro internazionale ospitato dall’Ocse, che si è interrogato su come un insieme di indicatori possa rispondere all’inedita complessità dei problemi che il sistema internazionale del presente e del futuro ha davanti.
I risultati che questo libro discute sono la sintesi di un lavoro che guarda al quadro globale deteriorato dal simultaneo affermarsi di tre crisi la cui dinamica ha accelerato proprio durante la scrittura del volume.
Si tratta dell’emergenza climatica, di quella distributiva (quindi, della diseguaglianza crescente) e di quella democratica. Ognuna di queste tre cuspidi si è appuntita nell’ultimo decennio, rendendo l’una dipendente dall’altra. Per fare un esempio immediatamente comprensibile: la gestione della crisi dell’euro successiva al 2008 ha prodotto un discredito delle istituzioni democratiche e conseguenze economiche che non hanno rettificato la corsa delle diseguaglianze fra gruppi sociali e fra nazioni. È appena il caso di notare che questa interdipendenza non è segnalata – se non in maniera remota – dal Pil su base annuale, inservibile per cogliere l’arretramento di un gruppo sociale, o per descrivere i guasti dovuti all’aggravarsi del degrado ambientale o, ancora, l’insicurezza, la volatilità e la sostenibilità economica.
Da qui la conclusione che l’esattezza della misurazione della performance economica sia funzionale a un processo decisionale in grado di rispondere all’evolversi del sistema economico internazionale: se la misurazione sarà adeguata, lo saranno anche le decisioni politiche, che, diventando migliori, miglioreranno la vita dei cittadini. Ammessa e non concessa la buona fede di chi governa, sia chiaro. Del resto, la velocità con cui la rivoluzione tecnologica ha mutato natura e partecipazione del discorso pubblico ha trasformato gli elementi che tradizionalmente formavano le politiche pubbliche. Per questo i nostri sistemi statistici devono rispecchiare le nuove preoccupazioni delle collettività e, per quanto possibile, anticipare quelle future.
Non si tratta di un argomento in sé originale: da decenni la scienza economica (e non solo) si è interrogata su quello che il Pil non dice. Ciò che qui è concretamente proposto è come aggregare alla monodimensionalità di quel dato, un “cruscotto” che informi politiche pubbliche tese a costruire una società più equa. La serie di problemi che tali nuovi indicatori – ristretti e intellegibili – riuscirebbero a segnalare va dall’efficienza del sistema sanitario all’indicazione del reddito mediano delle famiglie, dalla resistenza (individuale o collettiva) a uno shock, alla vulnerabilità di un sistema economico nazionale a una congiuntura sfavorevole. Per fare ciò, è utile valutare non solo la performance complessiva ma le dinamiche distributive, l’asimmetria delle opportunità fra cittadini, il benessere soggettivo, la fiducia nelle istituzioni.
L’importanza politica di affiancare al Pil tali nuovi indicatori è confermata dalle prese di posizione del 2015 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che per la prima volta si è posta «obiettivi di sviluppo sostenibile» (Sdg), e dalla Conferenza sul clima di Parigi, che nel dicembre di quell’anno ha lanciato il comune obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra così da contenere l’aumento delle temperature.
In entrambi i casi si è trattato di acquisizioni di grande valore, che hanno ridefinito l’agenda politica mondiale e hanno messo al centro dei rapporti di forza fra attori del sistema internazionale una dialettica non priva di tensione fra Paesi di nuova industrializzazione e democrazie occidentali e tra apologeti dello sviluppo coûte que coûte e coloro i quali nello sviluppo senza sostenibilità (sociale e ambientale) individuano il pericolo della sopravvivenza dei sistemi liberal-democratici.
L’ostacolo principale a ciò che questo libro propone è la facile (e diffusissima) critica rivolta alle “anime belle” da chi preferisce tenersi il Pil così com’è. Si tratta di un’agguerrita legione di conservatori, il cui sfondo, più o meno esplicitato, è l’adagio latino Primum vivere deinde philosophari: il primo problema è che quel vivere si è dimostrato concretamente più complicato per fasce crescenti di popolazione mondiale e per la tenuta ambientale del pianeta. Il secondo problema è che i difensori del Pil come unico metro non appartengono a quelle fasce.