Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2021
Prospettive di connessione per il cervello umano
«Te lo leggo nel pensiero», ci lasceranno intendere le nipotine di Siri o di Alexa: potremo pensare di chiedere loro qual è la capitale dell’Azerbaigian e ricevere la risposta direttamente nella nostra testa. Questa sarebbe la direzione verso la quale la tecnologia finirà per portarci. Così crede il filosofo e psicoanalista sloveno Slavoj Žižek, la cui figura ha ormai da tempo risonanza globale. Ci crede al punto da dedicare a quella direzione il suo ultimo libro: Hegel e il cervello postumano (ma nel titolo originale inglese il cervello è “connesso”), appena pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie. Del resto, se uno come Elon Musk e altri finanziatori stanno sovvenzionando il progetto Neuralink, che si propone di realizzare una connessione poco o nulla invasiva tra il nostro cervello e dispositivi d’intelligenza artificiale, quella direzione va presa e discussa sul serio.
Žižek si limita però a dedicarle un esercizio di pensiero, sia pure opportunamente critico, non mettendo in discussione alcune premesse di quel progetto. A me pare invece fondamentale sollevare anzitutto domande proprio intorno a tali premesse. Per esempio: stiamo parlando di una tecnologia installabile, cioè da innestare stabilmente nel nostro corpo. Al momento, essa punta a evolvere sino a essere in grado d’impiantare nel nostro cranio dei “fili” flessibili in polimeri, molto più sottili dei nostri capelli, che dovrebbero ricavare dal nostro cervello dati da indirizzare a ben quattro sensori a loro volta innestati in differenti parti del nostro corpo, i quali li raccoglierebbero per trasmetterli a un dispositivo esterno montato dietro l’orecchio e governato da una app del nostro smartphone. Aggiungo che la tecnologia Neuralink punta a evolvere fino ad affidare il suo impianto nel corpo umano alla chirurgia robotica.
Inutile allora servirsi, come fa Žižek, del facile gioco di parole tra chip e cheap per suggerire che le “microschede informatiche” sono ormai a buon mercato e aggirare così l’evidente questione dei costi d’acquisto e d’impianto di questa tecnologia: anche una volta raggiunto il grado d’evoluzione sperato, è facile prevedere che per lungo tempo quei costi potrebbero limitare drasticamente la sua diffusione. Ciò finirebbe dunque per produrre il paradosso di evitare, o almeno allontanare di molto – e comunque per ridurre nella sua portata – la prospettiva di quella connessione collettiva tra intelligenze umane e artificiali che il geniale inventore Ray Kurzweil, direttore del settore ingegneria di Google e profeta del postumanismo, chiama «singolarità» e annuncia «vicina», cioè appunto la prospettiva che Žižek prende in esame nel suo libro per discuterne possibili implicazioni e conseguenze sul nostro umano stare al mondo.
Piuttosto, se i costi elevati impedissero un’ampia diffusione della tecnologia Neuralink, il problema da porsi sarebbe quello delle discriminazioni – socio-economiche, tecnologiche, politiche – che prevedibilmente si creerebbero tra chi si potrà permettere il cervello connesso e chi no. Ma Žižek non si sofferma su questo aspetto del problema, né sull’altro che mi sembra preliminare alla discussione della prospettiva della “singolarità” da lui presa in esame: cosa significa davvero non invasivo? Domanda cruciale e ineludibile, invece. Tanto più che una delle fonti cui lo stesso libro di Žižek rinvia sottolinea che «nessuna delle tecnologie esistenti soddisfa l’obiettivo di Neuralink di leggere direttamente i picchi neuronali in modo minimamente invasivo» (The Verge).
Quanto mai urgente mi pare allora prendere sul serio un’altra modalità di comunicazione tra corpo umano e dispositivi digitali connessi, intelligenza artificiale inclusa. Attenzione: ora sto parlando di dispositivi da indossare anziché da installare. Questo rende tale modalità meno invasiva, molto più accessibile e perciò di più facile diffusione, ma, per lo stesso motivo, per certi versi non meno insidiosa. Tanto più che il suo impiego è già cominciato. Ecco come: certi organi del nostro corpo (le retine o la pelle, per esempio) vengono “presi in prestito” da quei dispositivi come componenti aggiuntive che permettono loro di trasmetterci informazioni o di ricavarle da noi. Insomma, anziché impiantare delle protesi nel nostro corpo per far funzionare tali dispositivi, l’idea è usare i nostri organi come loro quasi-protesi.
Prendiamo ad esempio certe tecnologie che proiettano raggi infrarossi nei nostri occhi usandoli come schermi per scoprire dove stiamo guardando, che cosa e per quanto tempo (eye tracking). Ormai relativamente cheap – loro sì –, le si usa sempre più in quel settore che si chiama neuromarketing perché applica le neuroscienze cognitive alle strategie di mercato. Tali tecnologie consentono infatti di studiare le reazioni dei consumatori in base al tracciamento dei loro movimenti oculari di fronte a un prodotto commerciale o a una pubblicità. Come dire: senza attendere la nascita delle nipotine, le sorelle minori di Siri o di Alexa già promettono di sussurrarci: «Te lo leggo negli occhi».