il Fatto Quotidiano, 2 ottobre 2021
Moresco prima di Moresco
Moresco prima di Moresco. Stelle in gola, che uscirà il prossimo 14 ottobre per Sem, è come uno di quei reperti dissotterrati dopo uno scavo archeologico. Sono pagine scampate all’estinzione – un romanzo, frammenti di altri due romanzi, racconti, scampoli di diario – che risalgono agli anni delle vacche e della vendemmia nella campagna mantovana, del “connubio di tristezza e di orina” del seminario bergamasco frequentato nella prima adolescenza.
Agli anni del “sottosuolo”, quando la vocazione letteraria era strappata alla fatica operaia, all’estremismo rosso tra cortei e riunioni di cellula. Agli anni nei quali lo scrittore era costretto a rivendersi enciclopedie per racimolare un pranzo; a quando, consumando decine di penne Bic, in un alloggio della periferia milanese scriveva nel bagno con la moquette pisciata per non svegliare moglie e figlia.
Stelle in gola, uno zibaldone di testi mutilati, di scarti, di abbozzi, restituisce non solo la tensione creativa che da mezzo secolo agita i polpastrelli di Moresco ma una tenace fedeltà a una poetica “che non assomiglia a niente”, che setaccia lettori inappagati. Qui c’è già tutta la sintesi singolarissima della sua narrativa: la corporeità della materia (sperma sangue merda) al rimorchio della grammatica della fantasia (vita e morte che si scambiano i ruoli dentro a un delirio allucinato e onirico). È la solitudine irriducibile dell’inconciliato la vibrazione che percorre i suoi testi, lo specchio dentro il quale Moresco cambia sembianze di volta in volta.
Fiaba d’amore racconta di Antonio, un barbone, “un uomo perduto, un rifiuto umano”, ultimo fra gli ultimi: “Nessuno sapeva chi era, neanche gli altri straccioni, perché se ne stava sempre da solo, non parlava mai con nessuno… Neanche lui sapeva chi era stato”. D’Arco, il poliziotto morto protagonista di Canti di D’Arco, che torna nella città dei vivi per assicurare alla giustizia una rete di criminali, è un altro cavaliere solitario che sbatte la testa contro il muro di domande capitali: “Qual è l’origine del male? Da dove arriva l’amore?”.
Quando nel 1993 Bollati Boringhieri lo pesca dallo stagno dei sommersi e pubblica i racconti di Clandestinità, Moresco ha i cassetti che straripano di risme di carta, rimaste a galleggiare in un purgatorio di rifiuti lungo quindici anni. Se prima aveva dovuto scontare i pilateschi “le faremo sapere” di intellettuali come Maria Corti, Goffredo Fofi, Giovanni Raboni (in Lettere a nessuno mette in fila tutte le viltà di un microcosmo culturale incapace di scommettere su uno slancio massimalista, su uno stile senza parentele), da scrittore emerso sarà costretto a un costante nomadismo editoriale. Da un libro sfrattato all’altro, passando per Feltrinelli Rizzoli Mondadori, sgrava le sue opere maggiori – Gli esordi, Canti del caos, Gli increati – tutte all’insegna di una dismisura che le sabota dall’interno in una polverizzazione di personaggi, di trame, di tempi della storia e nella storia (un monumento di cellulosa dove ci si può imbattere in una campagna pubblicitaria commissionata direttamente da Dio per vendere il pianeta Terra).
Ecco che l’epica dello scrittore che lotta per emergere, che si aggira per i salotti buoni con gli scarponi da trekking, che coltiva uno smisurato ombelico come “via estetica alla salvezza”, mal si concilia con i banditori della morte del romanzo (critici che sono “preti ormai senza fede” e che “non vorrebbero morire soli, e allora meglio far morire tutta la letteratura, dire che è morta perché non si veda che sono morti loro”).
Alle soglie dei 74 anni Antonio Moresco si sente e viene percepito ancora come un corpo estraneo. Non si rassegna a restare fuori dal campo di gioco e dalla tribuna dov’è confinato fa il tifo per se stesso, definendo il suo lavoro “un’opera che procede per agnizioni atomiche, dove il romanzo viene portato a esiti inconcepibili”. Presunzione o consapevolezza? Resta il fatto che l’autore mantovano, al prezzo di cefalee e ischemie, persiste nell’azzardo di tenere viva un’idea di letteratura totale, perseguita fino alle sue conseguenze più estreme: “Ormai da molto tempo – e forse da sempre – scrivo come se per me ogni giorno fosse l’ultimo”.