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 2021  ottobre 02 Sabato calendario

Le rarità di Cecilia Bartoli

L’industria discografica langue ma Cecilia Bartoli è lassù. Unreleased è il nuovo cd del mezzosoprano romano che chiamano Santa Cecilia (come la protettrice della musica): il numero 89, cifra impressionante, in 32 anni. Ne aveva 23 quando uscì il primo disco. Sul palco aveva cominciato a cantare l’anno prima, nel 1988. 
Di cosa si tratta?
«Nel primo lockdown non si poteva fare nulla. Alla Decca ho detto: ho inciso tanta musica mai pubblicata, ci sono arie da concerto come Ah! Perfido di Beethoven, che dura oltre 10 minuti, difficile da inserire in un cd. E così ho tirato fuori brani che avevo inediti registrati tanti anni fa».
La rarità di Myslivecek?
«Sì, è dalla sua Clemenza di Tito. Strano destino, fu popolarissimo alla sua epoca, poi l’oblio. Lo stesso accadde per Händel, riscoperto attorno al 1930. Io lo considero lo Shakespeare della musica: a Salisburgo ho cantato Il Trionfo del tempo e del disincanto che compose a 19 anni a Roma. Per il regista Robert Carsen abbiamo tutti l’ossessione della giovinezza, qui si celebra il carpe diem, arriveranno i capelli grigi e non puoi farci nulla, cerca di godere il momento. Io la penso come Anna Magnani: ci ho messo tanto a farmi venire le rughe».
Quanti cd ha venduto?
«Siamo attorno ai dieci milioni. I paesi forti sono Europa e Usa. La vera scommessa fu Vivaldi, nel 1998 ho lottato per incidere le sue arie d’opera, la mia casa discografica non ci credeva. Ha venduto 1 milione di copie, lanciando la riscoperta del repertorio vivaldiano. Tanti giovani musicisti, oggi di successo, cominciarono a studiarlo». 
Il cd ha futuro?
«Temo avrà vita breve, tra Spotify e quello che la tecnologia offrirà. La musica si ascolta in modo diverso, ci sono campagne previsionali, tutto dipende da quanti clic ricevi e dalle idee che hai».
Ricorda il suo debutto?
«Certo! Il Barbiere di Siviglia del 1988 al Teatro dell’Opera di Roma, la mia città. Papà cantava nel coro ed era nervosetto, mamma che faceva parte del coro di Santa Cecilia era in platea insieme con i miei amici compagni del Conservatorio. Poi la portammo a Berlino».
Ha conosciuto la Carrà.
«Andai nel suo noto programma dei fagioli. Ballavo il flamenco. Lei era semplice, ti metteva a tuo agio, avevo lo stesso approccio, sia che fossi presidente della Repubblica che una ragazzina di nemmeno 16 anni come ero io». 
Quando torna in Italia?
«Prima dell’Alcina al Maggio Fiorentino, a novembre sono al Teatro Galli di Rimini, che ho riaperto io dopo il lungo restauro. Mio padre era di Rimini, ho un po’ di famiglia lì. Farò un omaggio a Farinelli, il re dei castrati, pratica odiosa, nel ‘700 le donne non potevano esibirsi. Erano voci straordinarie che suonavano e componevano anche, con gli attributi che…Non avevano. Napoli all’epoca aveva quattro Conservatori».
Come si fa a avvicinare i giovani alla musica?
«Intanto riaprendo i teatri di provincia chiusi. I giovani avvertono che è un linguaggio complesso e lontano, bisogna togliergli il timore di non capirlo. Per amare la musica non serve essere particolarmente colti ed esperti».
E la Scala?
«Col progetto giusto, certo. I loggionisti? Lo considero un un fenomeno di folclore (quasi). So che ora si sono calmati, però tutti i più grandi artisti, a cominciare da Kleiber, sono stati buati. Mi ritengo fortunata, faccio parte di artisti di quel livello».
Le cose cambiano per le donne nella musica.
«A Salisburgo dirigo il Festival di Pentecoste e dal 2023 sono sovrintendente a Montecarlo, che non fa pensare alla musica e invece lì sono passati Gigli, Caruso, Diaghilev; Bayreuth ha aperto con Oksana Lyniv; Lucia Ronchetti dirige la Biennale. La vera conquista sarà quando non diremo più: è la prima volta che… Allora ci sarà parità». 
Come si resta regine tutto questo tempo?
«Bisogna sempre reinventarsi. Le riscoperte, i travestimenti...Io per Händel mi sono messa la barba finta».