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 2021  ottobre 02 Sabato calendario

Il calcio che verrà

La mattina del 20 aprile, un martedì, nei corridoi del Palazzo dei congressi di Montreux il nervosismo dei massimi dirigenti Uefa era più che percepibile. Nella notte fra domenica e lunedì dodici fra i più grandi club europei avevano rivelato il loro progetto di Superlega, e il congresso Uefa era la sede dalla quale doveva arrivare la risposta ufficiale, già anticipata dalle dichiarazioni di netta chiusura del presidente Aleksander Ceferin. Il nervosismo non era legato al fortissimo stress di quelle ore, piuttosto all’attesa per l’intervento di Gianni Infantino, il presidente della Fifa la cui fedeltà alle ragioni dell’Uefa non veniva data per scontata. Se Infantino avesse offerto una sponda ai rivoltosi, la posizione di Ceferin si sarebbe notevolmente indebolita. Per questo motivo, le parole decise di Infantino (“ either you are in, or you are out”, o siete dentro o siete fuori, rivolte ai club) vennero accolte con grande sollievo dai vertici Uefa. Il fronte istituzionale aveva tenuto: nelle ore successive, la rinuncia delle società inglesi – assediate dalla protesta dei tifosi, astutamente cavalcata da Boris Johnson – avrebbe portato al ritiro del progetto. Quel mattino Ceferin abbracciò Infantino con trasporto, e sì che fra i due c’era sempre stata una fredda rivalità. La Fifa aveva sostenuto l’Uefa. Ma era illusorio pensare che l’avesse fatto gratis.
La proposta di Mondiale biennale avanzata un mese fa da Arsène Wenger, direttore sviluppo della Fifa, assomiglia a un passaggio alla cassa. È difficile dire se un progetto così rivoluzionario sia il vero e immediato obiettivo di Infantino o – come molti pensano – il cavallo di Troia attraverso cui far passare la versione (molto) allargata del Mondiale per club che la Fifa ha in cantiere già da un po’. Di certo la proposta, accompagnata dal conseguente accorpamento delle partite di qualificazione in una o due finestre stagionali (attualmente sono cinque), ha avuto una risposta entusiastica nei continenti più distanti dal cuore del calcio, che vedrebbero raddoppiate le possibilità di trovare un posto al sole, e un’immediata opposizione in Europa e Sudamerica, dove si giocano le competizioni importanti. Una riedizione dell’eterno contrasto: da una parte ci sono i voti – Uefa e Conmebol consistono di 65 federazioni, gli altri continenti ne contano 146 – dall’altra il potere economico. Le ragioni di tanto attivismo – prima i grandi club, poi la Fifa, mentre l’Uefa ha già annunciato un nuovo format della Champions – si spiegano col fatto che il calendario internazionale in vigore arriva fino al 2024: a breve occorrerà pianificarne la prosecuzione, e dunque tutti sgomitano per accaparrarsi un po’ di date extra. Consapevole di quanto sia gettonato l’argomento dell’eccesso di partite, la Fifa ha coinvolto nel suo ragionamento i giocatori garantendo meno gare e spostamenti. La leva, ovviamente, sarebbe la concentrazione e riduzione dei match di qualificazione.
La verità è che al calcio occorre innanzitutto un metodo: se ciascuna delle parti in causa ha un problema – il dissesto accentuato dal Covid, per esempio – o anche solo un’ambizione di sviluppo, non può pensare di risolverlo con l’equivalente di un colpo di Stato, e chi se ne frega dei suoi effetti sulle altre componenti. Il calcio è un sistema complesso nel quale ogni spostamento ha un impatto sugli altri ingranaggi. Questo non vuol dire che le riforme non siano necessarie. Sono inderogabili. Ma occorre concertarle fra tutte le componenti in una grande conferenza internazionale, dove siedano al tavolo la Fifa, l’Uefa e le altre confederazioni, i club e la componente tecnica allenatori/ giocatori. I club, poi, andrebbero divisi fra top e altri, perché immaginare che il presidente del Psg, la società più ricca del pianeta, possa rappresentare gli interessi di tutti è una forzatura.
La potenza del calcio è data dalla sua unità, basti pensare a come si è ridotto un grande sport come il pugilato dove le sigle che si arrogano il diritto di organizzare un match mondiale sono quattro. Il calcio vive sul delicato bilanciamento fra tornei per club e per nazionali: un grande torneo ogni giugno aumenterebbe il numero di gare giocate per chi non ti paga, visto che gli stipendi vengono corrisposti dai club anche in quei mesi. L’idea di riequilibrare riducendo le partite di qualificazione ha un senso, ma una sola finestra – due col grande torneo – toglierebbe alle federazioni (specie a quelle più povere) i denari di sponsor e televisioni, che pagano anche per una visibilità costante nel tempo, e dunque occorrerebbe una nuova formula di mutualità, non semplice da trovare in tempi di crisi.
Venendo ai club, la sensazione è che i tre rimasti fedeli all’idea di Superlega (Real, Juve e Barça) debbano confrontarsi con i nove che ne sono usciti, perché se anche la Corte Europea fra un anno e mezzo – ma perché tanto tempo? – si esprimesse sulla liceità di organizzazione al di fuori dell’Uefa, non sarebbe semplice riportarli sotto lo stesso tetto. O è stata tutta una gigantesca mascherata, oppure sono successe troppe cose e sono state dette troppe parole perché gli inglesi possano tornare (e senza di loro che Superlega mai sarebbe...). Premesso questo, nella recente lettera agli azionisti Andrea Agnelli ha menzionato la necessità di non limitare più ai risultati domestici il criterio di qualificazione alle coppe europee: rispetto alla strategia del fatto compiuto di aprile, è un modo più elegante di porre la questione della garanzia di partecipazione per i grandi club. In realtà una quasi-garanzia già esiste: quest’anno i quattro grandi campionati hanno qualificato alla Champions 14 delle 16 squadre presenti l’anno scorso. Ma poniamo pure che le 16 qualificate agli ottavi – per prendere un criterio – si garantiscano anche l’iscrizione alla Champions successiva. Che cosa si fa se i due Manchester, Liverpool e Chelsea passano, come quasi sempre succede, e la Premier viene vinta dal Tottenham? Quinto posto concesso? E se l’anno dopo prevale l’Arsenal? E se poi rispunta il Leicester? Così un campionato molto più ricco come la Premier rischierebbe di estendersi in Champions togliendo posti a tutti (pure a noi). Una conferenza internazionale che concerti organizzazione e calendario post 2024 è ineludibile. Come in tutti i sistemi complessi, prendiamo l’apologo di Menenio Agrippa come stella polare: si esce dalla crisi soltanto uniti, perché se non aiuti i grandi club (lo stomaco) a risanare i loro bilanci, ai piccoli (le braccia) non arriveranno più i denari per i giocatori sviluppati. In realtà gli attori sulla scena sono molti di più, dagli enti regolatori coi loro apparati elefantiaci ai procuratori carnivori di ultima generazione. Ma la complessità si governa con un’idea forte, e quella del vecchio Menenio non è mai stata superata.