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 2021  ottobre 02 Sabato calendario

Alla Scala il barbiere senza Siviglia

Due “prime”, una assoluta ieri sera (Madina di Fabio Vacchi), in ventiquattr’ore alla Scala. L’esordio artistico del sovrintendente Dominique Meyer, dilazionato e sconvolto nei mesi scorsi dalla pandemia, non poteva essere più assertivo (il prossimo debutto è la secentesca Calisto di Cavalli, mai data a Milano). La nuova produzione di Barbiere di Siviglia affidata al direttore musicale Riccardo Chailly, che il capolavoro rossiniano diresse in Scala nel 1999, e pensata per subentrare nel repertorio scaligero alla storica lettura di Jean Pierre Ponnelle (1969), non ha faticato a conquistare. Già nell’anteprima per gli under 30, lo spettacolo di Leo Muscato è stato apprezzato e ha coinvolto, proponendo una visione insolita della più popolare opera comica della letteratura musicale.
Fatta piazza pulita di slarghi e balconcini spagnoleggianti, ma anche schivando la tentazione di spogliare l’azione di qualsiasi riferimento storico, il racconto si articola sui continui cambi di prospettive di sipari e boccascena, di fila di poltroncine e di specchi, di ribalte e platee ricostruite in palcoscenico, di camerini di trucco, sfilze di tutù appesi e indossati, e giganteschi bauli-stanze-scatole di meraviglie di attrezzerie e costumistica teatrale portati in vita dal vivace estro scenografico di Federica Parolini. Perché, questa l’idea portante: se in Barbiere di Siviglia c’è il mondo e la musica, non c’è luogo che lo riassuma meglio di un teatro in cui si sta provando un’opera. Tra spogliatoi, prove di canto, orchestra e danza, l’ufficio dell’impresario (che importuna la giovane primadonna), ponti e velari che vengono mossi a vista. E dove, come un mago d’altri tempi, il factotum-burattinaio Figaro, uscito dalla buca del suggeritore tira le funi dei siparietti e instrada le azioni dei personaggi, gustosamente vestiti da Silvia Aymonino.
Al solito Muscato ha la mano garbata e capace quindi lo spettacolo funziona. Ma lascia in ombra la componente non gioiosa, e la modernità scettica del personaggio di Figaro, i comportamenti interessati e un po’ prepotenti ereditati da Beaumarchais da tutti i personaggi. Mancando di “cattiveria”, convince a metà. Anche se la regia è in un certo senso motivata dall’adamantina lettura musicale. Chailly predilige le tinte acquarellate, il controllo assoluto dei colori e delle progressioni orchestrali, il gioco di nuance e la costruzione di architetture ritmicamente esplosive ma senza schiamazzi effettistici: rivelatori in tal senso l’accompagnamento nobile alla “Calunnia” o lo scatto procace ma sommesso del Quartetto del secondo atto.
L’estrema ricercatezza della direzione mitiga gli ingredienti più acidi e aguzzi della scrittura rossiniana. Tagliata com’è su misura per le qualità di una compagnia di canto ben assemblata quanto temperata nei volumi. Impeccabile nel canto moderno e stilisticamente coscienzioso, brillante come capita di rado nei recitativi dove la convergenza di lavoro sullo spartito musicale e su quello registico era preziosa. E visibilmente divertita. A partire dal protagonista Mattia Olivieri, sempre più sicuro e catturante, fino a Costantino Finucci e Lavinia Bini. Senza soggezione per i più esperti e idiomatici Filippo Romano e Nicola Olivieri, come Rosina Svetlina Stoyanova ha delineato un bel personaggio di porcellana; completamento pertinente della coppia con Maxim Mironov, cui l’esecuzione integrale della partitura ha per nostra fortuna restituito anche la grande scena-aria del finale.