la Repubblica, 2 ottobre 2021
Ora in Afghanistan il nemico è la fame
Maryam si sistema il velo, aspetta diligentemente il suo turno in una lunga fila divisa tra maschi e femmine dentro a un capannone cocente. Mostra i documenti agli operatori del World Food Program al centro di distribuzione di Herat, intinge il dito nell’inchiostro indelebile che indica che ha preso la sua razione e poi si affretta verso il pacco che darà un po’ di sollievo alla sua famiglia. 50 kg di farina, 8,5 di lenticchie, quattro bottiglie di olio e un kg di sale. Le durerà un mese e mezzo se sarà abbastanza brava a razionare. Ha sei figli, un marito e una nipote. «Ormai tutto è caro, 80 euro di affitto, il prezzo del gas per cucinare è raddoppiato, abbiamo venduto i mobili, tappeti, guardami, ho dovuto prendere le scarpe in prestito per venire qui», ci dice con il viso rigato da lacrime che non riesce a controllare. «Non ho più niente, mi restano solo le lacrime per piangere». Suo marito ha perso il lavoro con l’arrivo dei talebani, come decine di migliaia di persone in Afghanistan. Ha anche perso un figlio e il genero.
Secondo le Nazioni Unite il 97 per cento della popolazione rischia di essere sotto la soglia della povertà entro il 2022. La mancanza di circolazione di denaro per la chiusura delle banche, la sospensione dei fondi internazionali, l’aumento dei prezzi, il cambio di regime e quello climatico stanno facendo nascere una nuova classe di affamati. Due milioni di minori soffrono di malnutrizione, il 95% delle famiglie non ha abbastanza da mangiare. 14 milioni di persone vivono delle razioni del Wfp che continua a lavorare nel Paese avendo deciso di non andarsene, ma ogni giorno affronta una serrata negoziazione con i talebani per poter aiutare la popolazione. «Abbiamo bisogno di 200 milioni di dollari e ne abbiamo bisogno oggi», dice Mary Ellen Mc Groarty, direttrice del Wfp in Afghanistan in una visita congiunta con l’Unicef ad Herat. «Dobbiamo far arrivare il cibo alla gente per prima che arrivi la neve». I Paesi donatori due settimane fa, hanno promesso in un summit a Ginevra, più di un miliardo di dollari, ma «servono fatti, gli afghani rischiano letteralmente di morire di fame. Non c’è più tempo».
Zamina ha 22 anni e 5 figli. La dottoressa in una clinica mobile alla periferia della città le spiega che deve subito portare il figlio di 10 mesi all’ospedale. Pesa 4 chili in meno di quello che dovrebbe, si tratta di malnutrizione acuta, rischia danni fisici e mentali se non si interverrà subito. Anche lei verrà assistita perché se le madri non mangiano abbastanza, non possono nutrire i figli. «Come posso andare in ospedale? Non ho i soldi per mangiare, figuriamoci per le medicine», mormora rivestendo uno scricciolo troppo magro e silenzioso per la sua età.
Sembra un girone dell’inferno, la zona intorno alla clinica, dove famiglie che vengono da tutta la provincia scappate dalla guerra e dalla siccità hanno trovato rifugio nei campi sfollati. Costruiti su terra gialla, vivono in cubi di mattoni e fango che si snodano in un labirinto di casupole senza finestre. In ogni ambiente buio vivono tra le 5 e le 10 persone, senza pavimento, acqua, elettricità, senza bagni. Sono 550 mila gli sfollati interni in Afghanistan. «Non basta avere i soldi per aiutare, dobbiamo anche capire come contrastare il cambiamento climatico. Il collasso economico ha fatto precipitare la situazione, sta costringendo la gente a muoversi. Mi appello alla comunità internazionale per queste persone che a causa della lotteria delle vita, si ritrovano a lottare per sopravvivere», incalza Mc Groarty.
Abdul Rafur, 60 anni, ha tre figli, e gli restano due pezzi di pane, ci dice mostrando il suo cubo di fango incredibilmente ordinato, i piccoli giocano fuori nello spiazzo. «I bambini mi aiutano a raccogliere la plastica – sospira raccontando che viveva a circa 160 km da Herat, ma la siccità ha distrutto il suo raccolto – mia moglie, aveva 31 anni, è morta di parto. E ora sono solo, circondato da persone che anche non hanno niente, speravo che i miei figli studiassero per non essere come me».
Il divieto dei talebani all’istruzione per le ragazze oltre le medie li sgomenta. Fatima, 30 anni, è rimasta ferita durante i combattimenti nella città di Baghdis, le è caduto un muro addosso, si è rotta una gamba che non è mai tornata a posto non avendo i soldi per andare in ospedale. Le 4 figlie giocano tra i mattoni delle casupole in quel campo che ospita più di 10 mila famiglie. «Tra dieci giorni saremo tutte morte, non abbiamo niente, neanche la speranza che una delle mie figlie possa studiare e lavorare».
Dall’altra parte della città in un’azienda che sembra uscita da una navicella spaziale, sacchi di grano che poi diventeranno farina, vengono sfornati a ripetizione per poi essere caricati sui camion del Wfp e distribuiti alla gente, 29mila ad Herat nel solo mese di settembre. Si punta a fare di più, ma il direttore avverte che con le banche chiuse non riesce a pagare gli stipendi e che nel giro di due mesi dovrà fermare la produzione. «L’Italia è stata qui tanti anni, con i vostri soldati avete rischiato la vita per noi – dice Daud, uno sfollato che ha 10 figli, due dei quali mostrano gravi sintomi di dimagrimento – non abbandonateci».