il venerdì, 1 ottobre 2021
Franco Baresi: «Il mio calcio libero»
Il complimento più bello gli è arrivato di rimbalzo, a un evento di quelli in cui antichi campioni si ritrovano e parlano in libertà di vecchi segreti. Al culmine della serata Bebeto gli raccontò di come il grande Romario, inesorabile killer d’area di rigore, nell’intervallo della finale mondiale 1994 si aggirasse per lo spogliatoio prendendo a calci tutto ciò che gli veniva a tiro. "È infortunato, maledizione. Non dovrebbe nemmeno essere in campo, e invece quel dannato Baresi non mi sta lasciando un centimetro, arriva sempre primo sul pallone, sa in anticipo dove passerà. Ed è infortunato! Non è possibile. Non segneremo mai!".
Infatti il Brasile non segnò all’Italia, e quella del ’94 è rimasta l’unica finale mondiale arrivata sullo 0-0 al minuto 120, tempi regolamentari più tempi supplementari. Restavano i rigori, e Franco Baresi accettò di calciare il primo della serie in coda a una prestazione memorabile, "la migliore in carriera" pensa lui ad alta voce "soprattutto considerando le condizioni di partenza. Ventitré giorni prima ero stato operato di menisco".
La liturgia di quel rigore è il fil rouge che lega i nove capitoli di Libero di sognare, l’autobiografia che Baresi si è infine deciso ad affidare alla bella penna di Federico Tavola, l’amico scrittore che gliela proponeva da tempo scontrandosi con la proverbiale riservatezza del "milanista del secolo", come da referendum dei tifosi effettuato nel 1999 in occasione dei cent’anni di storia rossonera. Finché un giorno una prima breccia - "mi piacerebbe raccontare qualcosa della mia vita che trasmetta speranza ai bambini" - segnalò che la porta si era socchiusa: Franco era pronto.
Edito da Feltrinelli, il libro è diviso in due parti, la prima è una pastorale bresciana che racconta un’infanzia tra campetti di campagna e oratorio, segnata dalla scomparsa prematura dei genitori e dai provini che portano prima Giuseppe all’Inter, e poi lui al Milan. Sono anni di sacrifici sostenuti anche da preti e maestre, l’educazione alla vita che ha reso Baresi uno dei giocatori più tosti mai visti in campo, e fuori invece un cuore tenero che ancora si commuove nel ripensare al bene ricevuto. Nella seconda parte la sua storia sportiva entra nel vivo: partite, compagni, avversari, allenatori, dirigenti. Situazioni, soprattutto. Senza troppi commenti, secondo lo stile dell’uomo.
Baresi, per un ragazzino come lei cosa voleva dire allenarsi con Rivera?
"Imparare. Un anno soltanto, quello dello scudetto della stella, ma fondamentale per l’aspetto formativo. Rubare il mestiere ai grandi vecchi, ricordo anche Bigon oltre a Rivera, fu prezioso: penso e spero che nel finale di carriera qualche ragazzo del Milan abbia fatto lo stesso con me".
I suoi primi anni furono un’impressionante altalena, come racconta nel libro.
"Alla prima stagione da titolare vinco lo scudetto. L’anno dopo finiamo in B per il calcioscommesse, ma a fine stagione vengo chiamato in Nazionale per gli Europei. Torniamo subito in A, un’infezione mi costa quattro mesi di inattività e il Milan retrocede, ma appena sto bene vengo richiamato in azzurro e, sia pure senza mai giocare, divento campione del mondo. Montagne russe, pericolose. La solidità dell’educazione familiare venne fuori lì".
È vero che in quel periodo rifiutò un’offerta della Juve?
"No. Può darsi che l’abbia fatto il Milan, perché all’epoca non c’erano i procuratori ma il vincolo, e quindi le trattative si svolgevano tra società. Comunque io volevo solo stare al Milan, era la mia famiglia".
Difficile non chiederle di Donnarumma, se mi risponde così.
"Il calcio di una volta non è paragonabile a quello di oggi, e con i giudizi occorre cautela perché sono già comparsi striscioni di minacce. Inaccettabili. Premesso questo, Donnarumma poteva uscirne in mille altre maniere. Poteva firmare un contratto di due o tre anni, magari con una clausola bassa, e dare così al Milan il tempo di recuperare competitività anche in Champions, dopo averla riagguantata in campionato. Sei il portiere più forte, giochi nel Milan che è sempre un grandissimo club, ti hanno preso pure il fratello, l’offerta economica non sarà la migliore ma è ottima... Se poi la squadra non riesce a raggiungere il tuo livello, te ne vai. I tifosi in quel caso capiscono".
Anche lei vede nel procuratore l’anima nera di questa storia?
"L’ultima decisione è sempre del giocatore. Sa perché ci è difficile capire certe scelte? Perché parole bellissime delle nostre generazioni, per esempio riconoscenza, nel calcio moderno suonano ammuffite. Vogliamo parlare di Messi?".
Con piacere.
"Io non credo alla teoria in base alla quale non avrebbe potuto firmare per il Barcellona nemmeno gratis. O meglio, magari non poteva farlo all’ultimo minuto, ma se durante la stagione avesse prolungato il contratto, poniamo di 5 anni, spostando avanti nel tempo la riscossione dello stipendio, sarebbe rimasto al Barça come doveva essere. Mi ha molto deluso il passaggio al Psg. Ormai il Camp Nou è pieno di tifosi nati al calcio con lui, un giorno lì fuori ci sarà la sua statua, davvero non capisco perché sporcare una storia perfetta".
Che lettura ha dato del passaggio di Cristiano Ronaldo in Italia?
"Ronaldo mi piace perché si mette sempre in gioco, l’ha fatto venendo anche alla Juve dopo i trionfi in Inghilterra e in Spagna. Ha coraggio. Sul campo è stato uno spettacolo individuale, una cosa diversa da quelle a cui ero abituato. Diciamo tutti che è un’azienda, e come tale si comporta: protegge i suoi interessi, se collimano con quelli della squadra bene, altrimenti pazienza".
È una constatazione o una critica?
"Maradona aveva tutto quello che i fuoriclasse di oggi non hanno, e infatti si è lasciato dietro soltanto amore malgrado una vita non certo perfetta. Ma quando sceglieva una causa la sposava fino in fondo, guardate dov’era il Napoli prima di lui e dove lui l’ha lasciato. È stato un avversario terribile e magnifico, ogni sua giocata era rivolta al bene della squadra. E non ricordo una circostanza nella quale si sia rivolto a un compagno facendogli pesare la sua straordinarietà".
Lei è sempre rimasto al Milan, ricoprendo vari ruoli. Paolo Maldini ci è tornato invece dopo lunga assenza, e il suo stile ha conquistato tutti come in campo. Poteva essere richiamato prima?
"Paolo ha sempre chiarito di volere un ruolo decisionale, e finché c’erano Berlusconi e Galliani questo non era possibile. Decidevano loro. Ora che lo spazio esiste, direi che Paolo si muove bene. La fermezza sui rinnovi è la scelta giusta".
Se lo ricorda il primo raduno dell’era Berlusconi, con gli elicotteri all’Arena? E il primo periodo con Sacchi a Milanello?
"Berlusconi capì tutto con vent’anni di anticipo, il calcio stava diventando un’emozione collettiva senza pari, richiedeva vittorie ma anche spettacolo. Sacchi fu la trasposizione in campo di questo concetto, e non nego che gli inizi furono difficili. Ma non perché ci chiedesse di imitare i giocatori del Parma, come è stato tramandato: semplicemente, con Liedholm eravamo abituati ad allenamenti molto più soft".
Il titolo del suo libro è Libero di sognare, ma da Sacchi in poi quel ruolo l’ha dimenticato...
"Lei dice? Le svelo un segreto: quando difendevamo in linea ovviamente no, ma quando si faceva la famosa diagonale... era come se giocassi libero".
Beh, questo è uno scoop.