La Stampa, 1 ottobre 2021
Intervista a Juan Cuadrado
Il reggaeton. La salsa. I balletti dopo i gol. Juan Cuadrado ha il sorriso perenne e il disincanto di un calcio che nessuna tattica può ingabbiare, a volte ribelle come i riccioli in testa, retaggio di partitelle infinite sulla sabbia di Necoclì, sul mar dei Caraibi: «Ai giovani della Juventus cerco di trasmettere allegria: a volte siamo troppo tesi, per me la vita è felicità». Rimane ragazzo nei lineamenti e nell’entusiasmo, ha la luce negli occhi quando racconta d’aver rigiocato, già campione, a piedi nudi tra i bambini: invece ha 33 anni e oltre 500 partite alle spalle, sente la responsabilità nello spogliatoio e insegna, oltre ai trucchi, la gioia. «Che non vuol dire essere giocherelloni o superficiali, le risate non rubano concentrazione: chi ha il mio carattere può essere frainteso, a me capitò a Udine con Guidolin».
Sorride anche adesso, ripensando a Juve-Chelsea: cosa rimane della notte di Champions?
«La soddisfazione di aver giocato da squadra, di aver lottato per un risultato che volevamo a tutti i costi: è il nostro dna, contro le grandi viene fuori»
Con le medio-piccole qualcosa si inceppa: avete battuto i campioni d’Europa e lasciato punti con Udinese ed Empoli.
«Il calcio vive di episodi e di sorprese, pensate alle cadute di Real e Barcellona in questo turno, ma i momenti duri devono fortificare. La verità è che ogni squadra ha un suo valore e tutte ci affrontano come fosse una finale: dobbiamo farlo anche noi, avere sempre la stessa voglia».
Il successo sui Blues può essere la svolta della stagione?
«Ci dà nuove consapevolezze, ma dobbiamo tenere i piedi per terra e continuare a lavorare».
Commento diffuso: è stata una vittoria "allegriana".
«Anche secondo me: magari non avremo giocato il miglior calcio, ma, ripeto, siamo stati squadra. E conta il risultato».
Per l’allenatore, lei è un punto fermo.
«Mi conosce, sa dove mi trovo meglio. Ma sa anche che metto davanti la squadra e comunque l’importante è giocare, perciò sono disposto a ricoprire qualsiasi posizione».
Anche con Sarri e Pirlo era intoccabile.
«Non sempre. Con Sarri all’inizio non ero titolare, ho trovato spazio dopo alcuni infortuni. Non è stato semplice riadattarmi a terzino: lo facevo in Colombia, ma era un calcio diverso. Con Pirlo ricordo un colloquio: non mi vedeva convinto del ruolo, ci siamo parlati, gli ho spiegato con sincerità dove e come, secondo me, potevo fare la differenza: anche lui mi ha dato fiducia».
Dopo il Chelsea, il derby.
«Ho visto il Toro, lo trovo più solido che in passato. Sarà una sfida speciale, per noi e per i tifosi. Una battaglia. Ma in questo momento qualsiasi partita sarebbe stata importante».
Dovete risalire la china: nel 2015 un suo gol all’ultimo respiro nel derby avviò la clamorosa rimonta scudetto.
«Lo ricordo benissimo, una gioia pazzesca. Se ci penso, risento il boato del pubblico. Anche quest’anno siamo indietro, ma ci sono tante partite e ci crediamo: il nostro dna è lottare fino alla fine».
Paraguay-Colombia, poche settimane fa, è stata decisa da lei e da Sanabria.
«Il centravanti granata è un grande giocatore, ha segnato anche nell’ultimo derby».
Per voi sarà la prima stracittadina post-Ronaldo.
«Conosciamo la sua classe e sappiamo cosa ha rappresentato per noi, ma la cosa piu importante è la Juventus. Stiamo lavorando per non fare notare la sua mancanza».
Avrete attorno i tifosi, finalmente tornati allo stadio: ci avviciniamo piano alla normalità.
«È bellissimo ritrovarli, danno carica e forza. Con le tribune vuote non è la stessa cosa».
Purtroppo è tornata anche l’ignoranza: Maignan, portiere del Milan, è stato oggetto di insulti razzisti allo Stadium.
«La partita dovrebbe essere vissuta solo come divertimento e tutti dovremmo essere più responsabili. Invito a riflettere sulle conseguenze di certi gesti, di certe parole: non si fa male solo al ragazzo in campo, ma alla sua mamma, ai suoi figli, alla sua famiglia».
Qual è l’insegnamento del Covid?
«Che siamo piccoli e fragili, non controlliamo nulla: un virus ci ha messo in ginocchio. Ho sofferto come tutti e cercato di aiutare i più bisognosi: noi privilegiati dobbiamo farlo, tutti dobbiamo farlo. Se ognuno dà un poco di ciò che possiede, avremo un mondo migliore».
Lei è molto religioso.
«Ringrazio Dio per quello che ho, per quello che mi ha dato. Non basta possedere il talento, va coltivato con il lavoro, ma non dobbiamo dimenticare che ci viene dato dall’alto. Io vengo dalla povertà, dal popolo, senza Dio sarei nulla: sono grato per l’opportunità che mi ha concesso e ho una relazione quotidiana con lui. Consapevole che nessuno è perfetto».
Non ha dimenticato il suo passato: la sua Fondazione aiuta i bambini colombiani.
«Ero alla Fiorentina quando mi chiesi: "Cosa posso fare per loro?". E con un mio amico ho sviluppato il progetto a Medellin: calcio, ma anche scuola, musica, teatro. Cerco di dare un po’ di ciò che ho ricevuto: insegnare, attraverso lo sport e l’arte, valori e principi a bambini in cui mi specchio. Nel futuro mi vedo laggiù, in mezzo a loro».