il Fatto Quotidiano, 30 settembre 2021
Kafka, tra scarabocchi e smoking accollati
“Perché abbiamo un culo?” si chiedeva la protagonista di un racconto di Sartre. Non aveva un buon rapporto col corpo e dopo un tradimento torna dal marito, un uomo fisicamente infantile come certi preti tondi e glabri. Il corpo, con la sua goffaggine, le sue puzze e dolori, è il primo muro contro cui l’essere umano, catapultato nel mondo, va a sbattere trovandosi combattere una battaglia persa. E se Kafka può essere accostato alla filosofia esistenzialista è proprio nel disagio fisico. Da qui deriva quello di vestire.
Se Chagall non sopportava molti tessuti, Kafka era convinto che su di lui e solo su di lui “gli abiti prendessero quell’aspetto prima rigido come una tavola, poi spiegazzato e cadente” accentuando la sua bruttezza e facendogli temere gli specchi mentre passeggiava. Lo scrive in una pagina del diario del 1912 in cui racconta una meravigliosa disavventura con il sarto di Nusle. Era emersa l’esigenza di un vestito nero “per le occasioni di festa”, in particolare per un corso di ballo al quale il giovane Franz doveva partecipare. La madre, Julie Löwy, che si dava pena per la sciatteria del ragazzo nell’abbigliamento, convocò il sarto a casa. Era fuori luogo per Kafka parlare di frac e si passò allo smoking: “Ma quando appresi che il panciotto della giacca avrebbe dovuto necessariamente essere scollato e avrei dunque dovuto portare anche una camicia inamidata, la mia determinazione crebbe quasi oltre le mie stesse forze”.
Farsi un vestito nuovo era possibile, ma doveva essere accollato. Il sarto di Nusle non aveva però mai sentito niente del genere. Kafka sosteneva di averne visto uno in una vetrina e i due risolsero di uscire e andarlo a vedere. Arrivati al negozio scoprirono che lo smoking accollato era sparito. Forse poteva essere dentro. Mica se lo era sognato… Ma entrare in un negozio per vedere uno smoking insieme al sarto era fuori luogo per Kafka. Non poteva neanche far perdere tutto quel tempo all’uomo. Dunque gli commissionò qualcos’altro di meno impegnativo e tornò a casa vittorioso e sconfitto allo stesso tempo. Possiamo solo sperare che la cosa lo abbia aiutato a evitare il corso di ballo, una forma di tortura per chi non ha un buon rapporto col corpo.
Leggo le pagine del diario che contengono il racconto sullo smoking accollato in un delizioso e inquietante libretto intitolato Scarabocchi. I disegni di Franz Kafka, a cura di Ginevra Quadrio Curzio, edito da La vita felice. Si compie a molti anni di distanza il progetto di Max Brod di realizzare una raccolta con i disegni dell’amico. Sono scarabocchi che accompagnano, come nel caso suddetto, pagine di diario, lettere e cartoline. O testi universitari che Kafka gli passava essendo compagno di studi di Brod a Giurisprudenza. Testi di “diritto alpino austriaco” persino. L’amico a volte ritagliava gli scarabocchi e altre volte li recuperava da fogli di appunti buttati nel cestino della spazzatura.
Secondo Brod, che aveva una venerazione per lui, Kafka possedeva un talento per il disegno ed è un peccato che non abbia potuto coltivarlo. Non dobbiamo immaginare niente di nemmeno lontanamente paragonabile ai disegni e alle incisioni masochiste di Bruno Schulz, scrittore ebreo galiziano che aveva tradotto Il processo in polacco ed è accostato a Kafka per il realismo magico sia pure stilisticamente più delirante e florido. Non dubitiamo però che se lo scrittore praghese ne avesse avuto il talento o forse “solo” i mezzi tecnici avrebbe plasticamente rappresentato il disgusto verso se stesso e l’ammirazione per le altere donne slave di Schulz. Non disponendone, Franz si deve accontentare di figure elementari – spesso autoritratti – che a volte ricordano il minimalismo moderno della grafica pubblicitaria. Come nella copertina del libro, in cui troviamo Kafka sdraiato sulla scrivania in preda a un delirio di impotenza, con la testa abbandonata alla disperazione creativa. Lo scarabocchio accompagna una riflessione sulla miseria in cui era ridotto il luogo della scrittura, riflesso della miseria di chi lo utilizzava. “L’esterno è un interno elevato allo stato di mistero” scrive Brod in un breve testo sui disegni kafkiani. La realtà materiale è miracolo, meraviglia, tortura, oppressione, qualche volta gioia. Kafka, cognome che in ceco richiama la taccola, un passero nero, si autoritrae in versione non sgradevole. Più allucinate e goffe le figure non coperte da inchiostro nero, lasciate vuote e come nude. Qui la mancanza di tecnica aiutava o determinava l’intento di generare sgradevolezza. Siamo usciti tutti da Il cappotto di Gogol’, diceva l’amato Dostoevskij. A Kafka bastava Il naso da cui escono cose più imbarazzanti.