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 2021  settembre 29 Mercoledì calendario

Gli afghani restano (anche) senza ospedali e il rettore dell’ateneo di Kabul si rifà a Trump: «Islam first, le donne dopo»

Medicinali in esaurimento, ambulanze senza carburante, medici e infermieri non pagati, strutture a rischio chiusura: il sistema sanitario afghano frana, e lo fa rapidamente, trascinando con sé campagne anti-Covid, programmi anti-polio e soprattutto chi necessita di cure essenziali. Mancano i fondi, dopo l’interruzione brusca del flusso di risorse decisa dal maggiore gestore del denaro dei Paesi donatori, la Banca Mondiale, che ha chiuso i rubinetti un mese fa, il 24 agosto, a pochi giorni dalla caduta di Kabul. Un colpo durissimo, visto che in Afghanistan la spina dorsale del sistema sanitario è costituita da contratti stipulati con Ong nazionali ed estere, finanziate appunto dalla Banca Mondiale. Così gli afghani, devono anche fare i conti con ospedali che chiudono e servizi sospesi, in attesa che i donatori internazionali risolvano il loro dilemma: è peggio finanziare la nuova amministrazione taleban o assistere a una crisi umanitaria?
«Improvvisamente, l’Ong che gestisce la nostra struttura ha smesso di provvedere a forniture e stipendi. Molti colleghi si assentano per guadagnare qualcosa nelle cliniche private. Sono tre mesi che non riceviamo un soldo », ci spiega da Kabul il dottor Tariq Ahmad Akbari, primario all’Ospedale Afghano-Giapponese, primo centro Covid ad aprire in Afghanistan. «Siamo rimasti operativi 7 giorni su 7, ma abbiamo risorse ancora per un mese. Potremmo chiudere». Secondo la Federazione delle associazioni mediche afghane (Fama) e l’Alleanza delle organizzazioni sanitarie (Aho) il blocco dei fondi potrebbe comportare la serrata di 2.331 ospedali e cliniche. Per comprendere le dimensioni della crisi e incontrare esponenti taleban, la scorsa settimana è arrivato a Kabul il capo dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, che ha definito il sistema sanitario nazionale «sull’orlo del collasso». Nelle stesse ore, è giunta la notizia di un primo stanziamento Onu di 45 milioni di dollari per Oms e Unicef. Un inizio, ma non risolutivo. «L’impatto è stato devastante: è stato bloccato denaro che doveva rimborsare spese già sostenute. È stata la paralisi», ci spiega il dottor Farhad
Paiman, direttore della Ong afghana Ohpm, in contatto con i nuovi diri- genti taleban del ministero della Sanità. «Cerchiamo di tenere il settore sanitario fuori dalla politica, nella speranza che il flusso di aiuti riprenda». Intanto, anche negli ospedali, questione delicata e sensibile è quella delle donne, su cui la lente della comunità internazionale resta puntata: nel nuovo Emirato ogni giorno porta con sé cattive notizie. In un tweet tutt’altro che istituzionale, il neo rettore dell’ateneo di Kabul, Mohammad Ashraf Ghairat, lunedì ha scritto: «Gente! Vi do la mia parola, finché non sarà fornito un vero ambiente islamico, le donne non potranno tornare all’università o lavorare. Islam first, l’islam prima di tutto». Il paradossale riferimento agli slogan del presidente Trump è continuato poi con un sorprendente: «Make Kabul University Great Again». Per ora, alle donne, resta permesso operare nel settore sanitario. «Senza lo staff femminile, i servizi non proseguirebbero», sottolinea Paiman. «Assistiamo, però, a episodi di strutture che si autolimitano per precauzione e a casi di colleghe che temono di uscire di casa per recarsi al lavoro». All’Ospedale Afghano-Giapponese hanno ideato un servizio di trasporto casa-lavoro utilizzato dalla maggior parte del team femminile. Malgrado questo, il 10% delle donne si è dimesso.
Ora la priorità è che ripartano i finanziamenti. Nel loro appello, le organizzazioni di categoria Fama e Aho non potrebbero essere più esplicite: «Se i contributi resteranno sospesi, assisteremo presto a un elevato tasso di mortalità per mancanza di servizi sanitari di base. Un effetto devastante che sarebbe più grave degli ultimi quattro decenni di conflitto».