La Stampa, 29 settembre 2021
Joseph Stiglitz: «Non di solo Pil»
«Negli Stati Uniti i Jeff Bezos o i Bill Gates se la passano molto bene. Ma il reddito medio degli americani ristagna. In questo il Pil, l’indicatore che abbiamo sempre utilizzato per definire l’andamento delle economie, ha fallito, perché dà solo una fotografia parziale dell’economia. È il momento di concentrarsi sulle diseguaglianze e sul benessere». Joseph Stiglitz è tra gli economisti più noti al mondo. Allievo di Franco Modigliani al Mit di Boston, professore prima a Yale, poi a Princeton e infine alla Columbia University, premio Nobel 2001 per il suo contributo alla teoria delle «asimmetrie informative». Con i colleghi Jean-Paul Fitoussi e Martine Durand ha scritto Misurare ciò che conta (Einaudi, pp. XXXVI-212, € 18), un saggio su come sia necessario superare il solo prodotto interno lordo come termometro economico e sociale.
Perché il Pil non funziona più, professor Stiglitz?
«Per diverse ragioni. La prima è che non riesce a dare una fotografia che rispecchi tutti gli strati della società. Se nasci nell’1% più ricco, l’America è un gran posto dove vivere. Dopo la crisi del 2008, anche quando il Pil cominciava a crescere, il 91% del maggior reddito è andato a una ristrettissima cerchia di popolazione. L’americano medio continuava a guadagnare poco».
Quali sono le altre lacune?
«Il Pil non misura la sostenibilità. Si può registrare un boom come nel 2007, si può crescere, certo, ma distruggendo l’ambiente. In definitiva il Pil non misura quello che chiamiamo benessere. Gli americani medi hanno una vita più breve di quasi tutti gli altri Paesi sviluppati, hanno più malattie, più stress, meno vacanze. C’è una categoria di consumatori che chiamiamo difensiva: spendono sì, ma solo per sopravvivere».
In questi anni abbiamo sottostimato le diseguaglianze?
«Sì, in molti modi, e ci siamo concentrati per lo più su quelle relative al reddito e alla ricchezza. Ne abbiamo trascurate altre correlate, come quelle relative alla salute o all’accesso alla giustizia per gli afroamericani che sono state evidenziate nel dibattito relativo a Black Lives Matter, una disparità peggiore di quella nel reddito».
Dunque possiamo dire che se il Pil è una diagnosi incompleta per l’andamento dell’economia, anche le politiche fiscali e monetarie non bastano?
«Non sono mai stati strumenti sufficienti, ma ora devono ricominciare a concentrarsi di più sui temi rimasti fuori del mirino. Servono regole, politiche attive affinché l’economia non sia troppo diseguale. Più regole contro l’inquinamento e a favore della salute».
Regole anche per il mercato?
«Senza una regolamentazione adeguata ci sarà sempre la possibilità di sfruttare le persone e ci saranno società che proveranno a farlo. Penso per esempio a Facebook che punta a realizzare profitti anche se ciò comporta la distruzione della democrazia».
Nell’introduzione al libro lei parla di tre crisi capitali che il mondo sta affrontando: quella climatica, quella relativa alle diseguaglianze e, appunto, una crisi di democrazia. Quale la preoccupa di più ed è più difficile da risolvere?
«Quella legata alla democrazia. Da questa dipende anche la soluzione delle altre due. I rischi di una crisi democratica sono enormi: le società del carbone o del petrolio possono arrivare a condizionare i governi a tal punto da frenare ogni iniziativa a contrasto del cambiamento climatico. Oppure quell’1% di popolazione più ricca può riuscire a derubricare la questione delle diseguaglianze».
Cosa abbiamo imparato dalla pandemia?
«Abbiamo capito fino a che punto gruppi diversi di persone sono stati trattati in maniera molto differente. Il virus ha manifestato, direi esagerato, le diseguaglianze. La pandemia ha rinforzato l’idea che il Pil non sia una misura efficace per misurare il benessere».
Dopo il Covid le cose miglioreranno?
«Negli Usa i redditi peggiorano. Mentre i Bezos e pochi altri hanno guadagnato miliardi anche in questi anni, molta gente ha sofferto. Dall’altra parte la pandemia ha risvegliato l’attenzione sulle diseguaglianze, sono più visibili e ciò ha portato a prendere alcune misure. L’accesso alla giustizia, per esempio, è migliorato anche per gli afroamericani, vediamo più chiaramente le violazioni e ce ne sono meno. Il presidente Biden punta a ridurre la povertà infantile della metà in un anno. È un grande passo in avanti».
La ripresa post pandemica è già in atto anche in Italia. Ma il lavoro stenta a decollare e così i consumi. Che ripresa sarà?
«L’economia del XX secolo, quella basata sulla manifattura, non può più fare molto almeno in termini di posti di lavoro, visti i livelli di efficienza raggiunti. Ma i Paesi devono concentrarsi su un ventaglio più ampio di servizi, ad esempio su salute, cultura. Settori fonti di benessere, senza emissioni. Possono fare parte di una crescita sostenibile».
Quali errori i governi devono evitare per non fermare la crescita?
«Quelli che l’Europa ha fatto nel 2010 e gli Stati Uniti nel 2008, quando non c’è stata una politica fiscale, di bilancio, sufficiente per sostenere l’economia. Penso che il supporto europeo potrebbe essere troppo debole, perché 750 miliardi probabilmente non sono sufficienti per una forte ripresa. Si tratta di un piano pluriennale. Negli Usa parliamo di circa qualcosa come 5 mila miliardi di dollari. Molto di più».
È ottimista su come l’Italia userà i fondi europei?
«Sì, avete un governo molto professionale, con Mario Draghi e gli altri ministri. C’è una grande sfida per realizzare il piano ma avete le persone giuste per farlo».
Siamo tra gli Stati più indebitati, non è un problema?
«La situazione è andata troppo in là, per dire che non ve ne dobbiate preoccupare. Ma non dovete esserne ossessionati. Non si può ignorare, ma la cosa importante è il modo con cui ridurre il rapporto tra debito e Pil. Il punto è accelerare sul Pil, non pretendere di ridurre solo l’indebitamento».
La scarsità di materie prime e di microchip preoccupa il mondo: l’inflazione sarà il prossimo grande problema per l’economia mondiale?
«So che c’è un grande dibattito sull’inflazione, ma credo che si tratti dell’effetto temporaneo di un’economia che è stata spenta e che ora viene riaccesa. Queste cose non vanno mai dolcemente, si passa da mancanze e relativi balzi nei prezzi. Ma è solo temporaneo».
La ripresa post Covid durerà o sarà invece passeggera?
«Negli Usa si parla molto dei Roaring Twenties, gli anni ruggenti che seguirono la Spagnola. Le persone si sentirono liberate. Se sia vero anche ora è difficile dirlo, ma posso dirle che tra i nostri studenti c’è un vero senso di felicità e gioia di tornare nelle aule. Lo sentiamo chiaramente».