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 2021  settembre 26 Domenica calendario

Intervista a Khaled Khalifa - su "Nessuno ha pregato per loro" (Bompiani)

«Comincio ad arrendermi all’idea che la mia scrittura non abbandonerà mai Aleppo e che l’intensità con cui ricordo la mia città non si esaurirà mai». Il nuovo romanzo dello scrittore siriano Khaled Khalifa, Nessuno ha pregato per loro, edito da Bompiani, è dedicato nuovamente ad Aleppo, la sua città.

Aveva raccontato la battaglia tra il regime di Hafez Al-Assad, padre dell’attuale presidente, e la Fratellanza musulmana attraverso la storia di una famiglia di Aleppo negli anni Ottanta in Elogio dell’odio (Bompiani, 2011); poi la decadenza della borghesia aleppina e il soffocamento della società nel clima di paura e obbedienza del colpo di Stato baathista degli anni Sessanta in Non ci sono coltelli nelle cucine di questa città (2018); in seguito il viaggio surreale di un cadavere da seppellire ad Aleppo durante la guerra iniziata nel 2011 in Morire è un mestiere difficile (2019); adesso Khalifa torna ancora più indietro, tra fine Ottocento e inizio Novecento, a un’Aleppo crocevia di culture simile alla New York di oggi. «Aleppo nel XIX secolo era davvero diversa. Il paragone con New York potrebbe essere giusto ma in realtà la città siriana non godeva del diritto di decidere il proprio destino. Storicamente Aleppo è stata sempre governata da stranieri ai quali interessava soltanto approfittare delle sue potenzialità. Era la città dove convivevano molti gruppi etnicie una capitale degli incontri multiculturali, dove convergevano influenze cinesi ed europee. Nel periodo ottomano Aleppo era l’icona dell’impero e la seconda città dopo Istanbul».

Ma il sogno di farne la capitale del risorgimento arabo è fallito, spiega Khalifa. «Per capire le aspirazioni di questa città, dovremmo prendere in considerazione i suoi punti di forza: all’inizio del XIX secolo era sede di diversi consolati con centinaia di impiegati. Passeggiando per il centro, potevi sentire la gente parlare in italiano, olandese, francese e molte altre lingue che sono diventate un patrimonio collettivo di tutti i suoi abitanti. Aleppo era considerata un nodo nelle comunicazioni tra Oriente e Occidente, un ruolo che ha perso soltanto dopo l’apertura del Canale di Suez. È un storia di multiculturalità e di convivenza, con tanti progetti ambiziosi che ne erano l’emblema».

Perché ha voluto raccontare questo periodo storico?

«Non sono uno storico ma la meraviglia che sento dentro di me nel momento in cui posso sviscerare la storia della mia città mi induce a immaginare un destino diverso da quello al quale siamo giunti. Però, allo stesso tempo, ho sempre creduto che l’immaginazione non basti a ricostruire un passato che possa scacciare l’attuale triste presente, appesantito dalla morte e dalla dittatura».

Questo romanzo è anche la storia di amicizie e di amori che sbocciano tra protagonisti appartenenti a religioni diverse: musulmani, cristiani, ebrei. In che modo nei rapporti tra le religioni la situazione era diversa allora, rispetto a quella della Siria di oggi?

«Dovete sapere che la percentuale dei cristiani, nel 1916 in seguito alle migrazioni dopo il genocidio armeno, arrivò al 60% della popolazione di Aleppo. Gli ebrei erano il 5%: la seconda più grande comunità nel mondo arabo dopo quella di Bagdad. Soltanto conoscendo questi dati ci rendiamo conto della gravità della cacciata degli abitanti e delle loro culture. Gli ebrei originari di Aleppo parlano tuttora il dialetto della città, cucinano i piatti tradizionali e vanno fieri della sua storia. Questo loro atteggiamento non è un vuoto vantarsi: la loro appartenenza alla città è una verità profonda. La domanda è: perché le nostre città sono state svuotate dagli abitanti originari? Questa domanda ci condurrà a scavare nella storia per scoprire le ragioni della nostra miseria di oggi. Non sarebbe stato possibile mettere in atto questi piani infernali se non ci fossero state le dittature, che si lasceranno dietro una scia di distruzione. È questo che sta succedendo, anche se non siamo ancora arrivati all’ultimo atto. Sì, questo romanzo, nella sua parte essenziale, racconta l’amicizia tra un gruppo di persone: Hanna, Zakariyya, Suad, Azar, Aisha e David e le loro famiglie, che hanno origini diverse. Questo quadretto era una parte vera della città».

Una parte del racconto viene attribuita alla testimonianza del fratello di suo nonno, Junayyid Khalifa, che appare come personaggio nel romanzo. È una figura reale o inventata?

«I fatti narrati oscillano tra la realtà e l’immaginazione, ma il luogo di cui parliamo, Anabiyya, assomiglia ed è collocato nelle vicinanze del villaggio in cui io sono nato, Maryameen, che dista 5 chilometri dalla città curda di Afrin e 40 chilometri da Aleppo. È nelle vicinanze di quelle che vengono denominate le città morte, che abbiamo supposto sia il luogo dei monasteri di Zahr Ar-Romman e di Hanna di cui si racconta nel romanzo. Il vero fratello di mio nonno potrebbe non assomigliare al personaggio di Junayyid di cui narro, ma fra i due ci sono molti incroci. In questo romanzo ho voluto usare molto l’immaginazione, nella ricostruzione degli avvenimenti e dei numerosi personaggi, per dare a me stesso l’occasione di sperimentare una maggiore compenetrazione tra realtà e finzione».

Venezia è il luogo dove i due principali protagonisti diventano uomini e i rapporti con un console italiano aiutano più volte i nostri eroi.

«Venezia era una partner fondamentale per Aleppo, il consolato veneziano contava centinaia di impiegati e l’italiano era un delle lingue principali nella mia città. Si raccontano molti aneddoti di questa collaborazione tra le due città. L’edificio del consolato di Venezia ad Aleppo esiste ancora».

Alla fine del libro lei ringrazia diversi amici per aver reso questo libro migliore. Quanto tempo vi ha dedicato?

«Ho passato dieci anni a scrivere questo romanzo. Gli amici mi hanno aiutato molto, soprattutto per la parte storica e in particolare sui monasteri. Mi hanno messo a disposizione documenti, carte geografiche di raccolte pubbliche e private, album di famiglia e infiniti racconti familiari. Hanno letto e riletto una serie di bozze, per l’esattezza 19. Queste letture sono state accompagnate da lunghe discussioni da cui sfociavano altre mie domande. Sono stati generosi con me, sono loro debitore».

Questa è anche una collezione di molti amori impossibili, per i quali nessuno prega (come dice il titolo) e che finiscono per distruggere le vite delle persone intorno. Ma anche se si cerca di vivere senza il vero amore arrivano catastrofi che si portano via tutto.

«Sì, è un libro sull’amore impossibile, irrealizzato, un amore monco. L’amore “assassinato” è l’argomento preferito nella mia narrazione ma in questo romanzo tutto va inesorabilmente verso la distruzione, i sogni infranti e l’impossibilità di vivere. Non so quando mi libererò dagli effetti di questo libro. Mi rendo conto ora che il ritorno al XIX secolo era un pretesto per raccontarvi che la vita è una catastrofe, che non vale la pena arrovellarsi. Il dolore che accompagna i personaggi continua tuttora a scavare nel mio profondo».