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 2021  settembre 27 Lunedì calendario

Lo Stato è il primo banchiere d’Italia

Lo Stato italiano è il primo banchiere del Paese. Non è uno slogan, ma la realtà dei numeri aggregati, che negli ultimi quattro anni ha visto aumentare sensibilmente gli impegni finanziari pubblici verso imprese e famiglie. I rischi creditizi ormai ammontano a 500 miliardi di euro: sia come garanzie di crediti delle banche private (circa due terzi del totale e pari a 330 miliardi), sia come finanziamenti, per i quasi 165 miliardi che restano. Nessuna banca è tanto esposta sul credito in Italia. I due maggiori gruppi, Intesa Sanpaolo e Unicredit, al 30 giugno registravano rispettivamente 476 miliardi e 499 miliardi di crediti lordi verso clienti. Ma dai due importi, per un raffronto omogeneo, andrebbero sottratti gli impieghi all’estero (che per Unicredit sono una buona fetta del totale) e i crediti che da un anno e mezzo le due banche emettono sfruttando proprio le garanzie pubbliche, e pari ad altre decine di miliardi.
Insomma, non c’è partita. Non ci sarebbe nemmeno se a ottobre il Tesoro riuscisse a liberarsi del fardello Mps, o almeno di quella fetta maggioritaria del bilancio senese che a lucrose condizioni Unicredit sembra disposta a comprarsi. C’è voluto poco tempo per arrivare a questa situazione, che ha ribaltato gli eventi e la narrativa di un sistema bancario nostrano ormai inesorabilmente privato e privatistico. Dopo le privatizzazioni partite negli anni Novanta l’Italia era uno dei Paesi con meno Stato nel credito, anche in reazione a un presidio secolare in cui il ruolo della politica nel settore aveva contribuito a situazioni poco memorabili. Perfino l’onda dei salvataggi seguita alla crisi del debito sovrano (nel 2011) aveva soltanto lambito il Paese, diversamente dal resto d’Europa. L’inversione di tendenza, brusca sulle grandezze, è cominciata nel 2017. La normativa europea sul bail in, congegnata per coinvolgere gli investitori privati nelle perdite del sistema finanziario dopo anni di costosi e impopolari salvataggi pubblici, era appena entrata in vigore: ma lo aveva fatto con tali criticità e turbolenze che da allora quasi nessun governante nell’Eurozona ha ritenuto di farvi ricorso.
In quei mesi, dopo una fase difficile – e complici le pessime gestioni – tre banche erano particolarmente dissestate: le due ex popolari venete e Mps. Tutte le altre avevano comunque accumulato crediti deteriorati pari a un 21% medio degli attivi totali, il quadruplo che nel 2008 e meglio solo di Grecia, Portogallo, Cipro. I salvataggi di Popolare Vicenza e Veneto Banca, e la ricapitalizzazione pubblica di Mps, sono stati il recente big bang dello Stato banchiere. Anche perché sui tre dossier furono messe in campo due nuove misure di sostegno al settore, con la nascita di Amco (utilizzando la struttura della vecchia Sga pubblica) per comprare e gestire crediti difficili e l’introduzione delle “Gacs” erogate da Consap (Tesoro), per garantire le tranche senior delle cartolarizzazioni di crediti malati ceduti dalle banche. Due iniziative del Tesoro per incentivare lo smaltimento dei crediti difficili, e la nascita contestuale di un mercato di nicchia. Quelle iniziative sono servite: le banche italiane hanno riallineato l’incidenza degli attivi deteriorati (il cosiddetto Npe ratio) alle rivali estere, e l’Italia è il primo mercato europeo nel recupero crediti. Malgrado i risultati, la crescita dei cespiti di Amco e delle Gacs negli ultimi mesi prosegue incessante, e si va configurando come un correttivo statale al mercato che distorce le aste, favorisce le banche venditrici e appesantisce l’Erario.
Il secondo big bang
Il secondo “bang” è stato un anno e mezzo fa, dopo i decreti primaverili per evitare che le imprese crollassero sotto la pandemia. Anche qui, misure provvidenziali, con cui lo Stato ha manlevato gli istituti bloccati dal lockdown scongiurando la stretta creditizia a danno delle aziende, specie piccole. Dal 17 marzo scorso ci sono quasi 229 miliardi di euro di nuovi crediti bancari garantiti quasi integralmente da Mcc e da Sace: una buona parte di questi è servita agli istituti per rientrare da esposizioni pregresse, continuando di fatto a fornire credito al sistema economico. Insieme alle Gacs, Sace e Mcc costituiscono la gran parte delle garanzie su crediti in essere. Il resto è fatto dai finanziamenti di Cdp alle imprese, dagli impieghi della stessa Mcc (quasi tutti imbarcati nel salvataggio del gruppo Banca popolare di Bari) e dal bilancio Mps. Di questi 81 miliardi, tra l’altro, circa un terzo si stima continuerà a gravare sugli attivi pubblici sine die dato che Unicredit non pare intenzionata a rilevare una dozzina di miliardi di crediti difficili, 6 miliardi di contenziosi legali e gli attivi racchiusi nelle filiali di Mps nel Sud Italia.
L’opinione pubblica, al di là del superficiale dibattito tra tifosi della banca pubblica (M5s, Fdi, pezzi della Lega e della sinistra) e “privatisti” (Pd, Fi, Iv), fatica a vedere le cifre complessive, e i rischi sottesi: che anche a contarli per difetto sono nell’ordine delle decine di miliardi. Basti, a dare un’idea, un raffronto tra gli attivi dello Stato banchiere e quelli delle banche private. Su 494 miliardi totali lo Stato ne ha 374 in bonis – sommando crediti e garanzie “performanti” – e quasi 120 miliardi deteriorati, tra sofferenze e inadempienze probabili. L’incidenza dei deteriorati è superiore al 24% degli attivi totali, il triplo del settore bancario privato italiano. E, stimando un sobrio 5% di perdite future, lo Stato banchiere perderebbe 25 miliardi nei prossimi anni. Anzi, i primi nodi iniziano a venire al pettine.

Se i recuperi non bastano
L’anno di pandemia, che ha bloccato i tribunali italiani, ha acuito il ritardo di quasi tutti i piani di cartolarizzazione, molti dei quali serviti da garanzie “Gacs”, e molti dei quali già partivano sotto auspici ottimistici perché le banche avevano ceduto i crediti a prezzi tali da non farsi troppo male. In recenti negoziazioni, i compratori hanno prezzato a zero le tranche junior e mezzanine, accettando di pagare solo per il contratto di recupero crediti, che frutta commissioni prioritarie. Diversi operatori del settore segnalano che tra poco in qualche emissione i flussi di recupero non copriranno più neanche senior, e i sottoscrittori inizieranno a chiamare l’escussione delle garanzie Consap. Quanto ad Amco, avendo acquistato a valori spesso superiori agli operatori di mercato, mostra poco interesse a concedere transazioni stragiudiziali, preferendo lavorare sui tempi decennali delle bad bank.Quando le perdite si materializzeranno potranno accadere tre cose. Una, improbabile, vede uno Stato liquidatore subentrare allo Stato banchiere, e il trasferimento degli effetti finanziari delle perdite dai conti pubblici al contesto sociale e politico, dove le imprese chiudono e i posti di lavoro spariscono. La seconda, più probabile ma sempre poco, è l’avvento di uno Stato gestore, che si ritrova in mano migliaia di imprese piccole o medio-grandi, avendo convertito in capitale i crediti in mora. La terza, più inerziale, è che lo Stato continui a fare, sommessamente, il banchiere: allungando le scadenze di rate e rimborsi, e dosando sapientemente costi una tantum – tipo la manciata di miliardi che tra poco darà a Unicredit per Mps – e nuova finanza alle imprese affidate, provando a limitare i danni per il Paese.