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 2021  settembre 27 Lunedì calendario

Ildegarda che vedeva il futuro

Tra gli studiosi più vivaci e mobili dei nostri giorni, provo una grande ammirazione per Peter Dronke, un inglese di origine tedesca, che insegnava letteratura latina medievale all’università di Cambridge, di cui rimpiango profondamente la scomparsa. A lui (ma anche a un’eccellente studiosa italiana, Michela Pereira), dobbiamo soprattutto la riscoperta della più grande santa del Medioevo europeo, Ildegarda di Bingen.
Goethe conosceva uno dei suoi libri, Scivias: ma aveva visto i manoscritti (con superbe illustrazioni), e pensò lungamente a lei, affascinato da quella mescolanza di mistica e di scienza naturale. Ci fu, credo, un processo di identificazione, perché Goethe trasformò Ildegarda nel personaggio principale del suo tardo Meister, Makarie, che si allontana nei cieli, diventando una stella. Goethe credeva nella natura stellare degli esseri umani: molto meno nella loro natura fisica. Bastava che si sfiorasse una mano, per rendersi conto della propria natura astrale. Niente, per lui, era più certo.
Ildegarda vedeva: il cielo e la terra; nell’attesa di lasciare la terra, indossava il cilicium. Raccontò cosa avesse scorto: come un grande scrittore, Goethe o Manzoni, o, più tardi, Henry James; vedeva tutte le cose nella loro estrema precisione; erano essenzialmente fuoco: la chiave balenante dell’universo. «Tutto ciò era presente» nella parte più profonda ed incognita della sua anima. Sotto gli occhi acutissimi di Ildegarda il mondo veniva trasformato: non sappiamo se nel culmine dei cieli, dove abitava Makarie, o tra le montagne e le valli verdissime del Reno, dove trionfava la viriditas. La sua straordinaria forza fisica era anche forza di volontà. Non le bastava vedere: perché la sua visione era una profezia; l’anticipo del mondo futuro e forse della fine dei tempi. Un monaco, Wolmar, la soccorse: diventò non solo un suo carissimo amico, ma una specie di doppio, che aggiungeva la percezione naturale all’intuizione mistica.
Ildegarda aveva grandi soccorsi: San Bernardo, il grande papa Eugenio, e soprattutto il più misterioso dei santi, Giovanni, che ripeteva con lei: “In principio era il Verbo”. Bastavano quelle parole perché Ildegarda tornasse nell’Eden, dove aveva vissuto assieme ad Adamo, sotto la forma di Eva. Non era più Ildegarda di Bingen, un’aristocratica tedesca sdegnosa e orgogliosa, ma Eva. Era stata colpita dal secondo versetto della Genesi: «La terra era deserta e vuota, e le tenebre erano sulla superficie dell’abisso, e il vento di Elohim aleggiava sulla superficie delle acque».
Ildegarda era al principio, anzi prima del principio, quando le parole e il gesto di Dio non avevano ancora cominciato a costruire il firmamento. Eppure c’era già qualcosa: tenebra e terra deserta e abisso, e la superficie delle acque. Chi aveva gettato quella massa confusa e indistinta, che serviva a Dio come materia durante la creazione del suo universo? Come Giobbe e Isaia, Ildegarda pensava alla prima creazione: quella sola che le apparteneva; e alla battaglia di Dio contro i mostri del mare, alla vittoria trionfale di Dio, e alla rigorosa delimitazione delle terre e delle acque. Come Ildegarda, noi sappiamo soltanto che, prima del principio, c’era qualcosa. Ma non poteva raccontare cosa era accaduto in quella mescolanza originaria. Allora non c’era ancora il tempo, che Dio foggiò soltanto il primo giorno.
Poi avvenne il principio: Dio creò la luce ed il tempo. “Ed Elohim disse: sia luce, e luce fu”. Così Dio creò il firmamento, il sole, la luce, gli animali del mare, i volatili, gli animali della terra, e l’uomo nella sua doppia versione. Lo fece come un artigiano, senza ricorrere alle parole. Ma le parole ormai esistevano: le parole non erano altro che Ildegarda di Bingen, questa scrittrice e parlatrice meravigliosa.
Ildegarda era malata. Nelle sue lettere parlava dei «tormenti aerei », che percorrevano tremendamente il suo corpo, le vene, il sangue e le ossa. Parlava dell’angelo buono: angelo della schiera di Michele; del Cantico dei cantici; e della propria opera: il Liber divinorum operum, il Liber vitae meritorum, le Scivias (cioè Conosci le strade) e la Physica – attorno agli alberi e pietre preziose, i boschi, i fiumi, i ruscelli, la natura, che lei soltanto conosceva così da vicino. Ecco frasi stupende: «Infine, poi, ebbi una visione mistica e meravigliosa, tanto che ne furono colpite tutte le mie viscere, ed estenuata la mia sensibilità ».
Ildegarda era affascinata dalla qualità femminile: tutto ciò che diceva sulle donne mi sembra straordinariamente sottile e robusto. Parlava della forza fisica delle donne, del rapporto sessuale tra maschi e femmine: con competenza, coscienza, orgoglio, dolcezza, precisione, e perfino spudoratezza. Nessuno era più Eva di Ildegarda. Non ci importa che sia stata violenta, dura, verginale, malinconica, discreta, potente, capricciosa. Come scrive esattamente Peter Dronke, era «intimidatoria ed eccentrica: stupenda per la sua capacità di riflessione ed espressione; amabile per il suo calore e la sua freschezza », e la sua forza nell’affrontare qualsiasi argomento.
Ildegarda era un’aquila. Le aquile sono ricche di splendore: indossano diamanti, gioielli, smeraldi, qualsiasi specie di pietra preziosa. Le aquile si esibiscono. Amano gli spettacoli: amano il teatro: la solenne festosità della musica; la musica radiosa. Ciò non esclude che fosse una santa: come Dante Alighieri avrebbe potuto rappresentarla nel Purgatorio e nel Paradiso. Le sante scrivono benissimo: molto meglio di noi; e il latino di Ildegarda era probabilmente il più perfetto latino del secolo. Nessuno la eguagliava. Noi, oggi, tanti secoli più tardi, ammiriamo ancora la sua leggerezza e la sua frivolezza. Era frivolissima, carica d’oro e d’argento, che esibiva. Ho conosciuto solo un’altra santa – Cristina Campo – che fosse così lieve e luminosa. Alla fine, Ildegarda decise di morire. E, con ferrea determinazione, il 17 settembre 1178 salì nel regno dei cieli. Come doveva piacerle quell’immensa sinfonia femminile che si svolgeva lassù, sopra le nubi! O feminea forma, quam gloriosa es! Circa un secolo dopo Margherita Porete la imitò. Il suo era «lo specchio delle semplici anime annichilate, che vivono sole nel volere e nel Desiderio d’Amore».