Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2021
quando gli inglesi tentarono di invade il Tibet. Il racconto Peter Fleming
Suo fratello minore Ian aveva creato James Bond, ma il vero agente segreto era lui, Peter Fleming. Nato nel 1907, aveva compiuto viaggi, esplorazioni, operazioni sotto copertura fino all’immancabile appuntamento con la Seconda guerra mondiale, dalla Norvegia alla Grecia, dall’Africa all’Indonesia e alla Cina, conclusa col grado di colonnello. Dopodiché, giornalismo, ricerche esotiche e letteratura avevano preso il sopravvento, consegnandolo ad una vita meno agitata. «Uno spirito elisabettiano alleato a una mente moderna»: così lo aveva definito, con un felice paradosso, Vita Sackville West.
Fra le sue prove migliori, uscita nel 1961 ma tradotta ora da Edizioni Settecolori, Baionette a Lhasa, un’accurata ed ironica ricostruzione dell’improbabile tentativo di Francis Younghusband (1863-1942), esploratore e ufficiale britannico, di invadere il Tibet, fra il 1903 e il 1904. Assecondato dal viceré dell’India, Lord Curzon, l’intraprendente ufficiale di Sua Maestà, alla testa di una compatta ma ben equipaggiata spedizione, si era avventurato lungo la strada per Lhasa per indurre il governo locale formalmente a una rettifica dei confini fra Sikkim e Tibet, in realtà alla sottomissione a Londra, contenendo così le pressioni più o meno esplicite di russi e cinesi: i primi in apparente espansione, i secondi già provati dalla sconfitta inflitta loro dai giapponesi in Corea.
Erano circolate indiscrezioni su un possibile accordo sino-russo sul Tibet: una chimera utile a ravvivare le paranoie degli imperialisti e a indurre il riluttante governo di Sua Maestà a prendere provvedimenti. Una storia già sentita. Younghusband, a quarant’anni, si sentiva nel 1903 l’uomo giusto al posto giusto; e anche se il suo mandato di commissario britannico era tutto sommato limitato, scrivendone al padre aveva definito il suo un «compito davvero magnifico». La spedizione era partita all’inizio dell’estate e si era poi rafforzata con ulteriori uomini e mezzi, dai pezzi di artiglieria alle mitragliatrici, dai 7mila muli ai 5mila buoi, oltre ai 10mila portatori. Un vero esercito, falcidiato ben presto dalle condizioni climatiche estreme. Aveva trovato lungo il suo cammino una resistenza disordinata, ma in compenso condizioni di vita precarie e degradate, oltre a una immensa sporcizia.
A Phari – scriveva il corrispondente del «Times» – «gli uomini e le donne sono neri come le pareti di torba che fanno da sfondo a ogni scena. Non si sono mai lavati. Non hanno intenzione di lavarsi mai». Osservazioni etnografiche a parte, da Londra gli ordini giungevano frammentari e contraddittori: neanche il ministero Balfour sapeva esattamente come comportarsi, e poi gli esperimenti di distensione con lo zar consigliavano di non esagerare con la competizione in Asia centrale. La «Westminster Gazette», il 3 dicembre 1903, chiedeva con tono fra l’ironico e il minaccioso «che il Governo ci dicesse che cosa sta combinando in Tibet e perché lo sta facendo».
Il “Grande Gioco” in realtà era agli sgoccioli, ma Younghusband, un po’ per il suo carattere volitivo, un po’ per la scarsa chiarezza degli interlocutori, non se ne accorse. Nella primavera del 1904, gli scontri assunsero, a causa del differenziale tecnologico, il profilo di autentici massacri; le mitragliatrici Maxim compirono stragi che lo «Spectator» in luglio descriveva così: la «spedizione non è mai stata popolare, se non altro perché ovviamente stiamo schiacciando uomini mezzi armati e molto coraggiosi con le irresistibili armi della scienza».
Nonostante le cannonate e l’esibizione muscolare, l’esito fu fallimentare: fuggito il Dalai Lama, le condizioni imposte a Lhasa, in mancanza di un adeguato deterrente, restarono lettera morta, mentre Pechino, almeno fino alla rivoluzione che rovesciò l’imperatore, riuscì a veder riconosciuto il suo formale diritto signorile su quella remota regione.
Quando, nell’agosto 1904, «i membri del Governo di Balfour si sparpagliarono nelle dimore di caccia scozzesi e nelle terme europee, il meglio che speravano per il Tibet era che Younghusband (…) potesse essere in grado di estorcere ai noiosi abitanti qualche piccola ma pericolosa concessione politica» (p. 263). Nella brillante ricostruzione di Fleming non manca alcun ingrediente: ci sono la superiorità tecnologica dell’Occidente, i massacri gratuiti, la scarsa chiarezza circa gli obiettivi finali, la supponenza nei confronti dei leader autoctoni, l’equivoco ritiro, il capo spedizione divenuto capro espiatorio e sacrificato, anche tenuto conto di tutti i suoi limiti personali, per coprire una visione dottrinale delle relazioni internazionali.
Un vero manuale che avrebbe potuto costituire un valido vademecum per diplomatici e militari ancora in tempi recenti, in un Paese non molto lontano da lì. Oggi non più.