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 2021  settembre 26 Domenica calendario

Giorgio Gaber raccontato dalla figlia Dalia Gaberscik

In via Larga, a Milano, riaprirà tra qualche settimana il teatro Lirico intitolato a Giorgio Gaber. Nel nome del padre, la vita di Giorgio, genio che sembrava un fil di ferro sghembo e forte, continua in quella della figlia Dalia Gaberscik, 56 anni, agente di attori e cantanti e organizzatrice di eventi culturali. 
Passato e futuro si riannodano.
«Ricordo benissimo le serate al Lirico con Mina. Ero piccolissima, avrò avuto quattro o cinque anni. Rivedo quei camerini poco illuminati e la magia che c’era sul palco. Lui faceva il primo tempo, mentre la gente aspettava trepidante Mina. Era preoccupato, ma se l’è sempre cavata alla grande. Mi emoziona pensare che il teatro porterà il suo nome».
A proposito di nomi, lei si chiama Dahlia Deborah. Sa come li hanno scelti i suoi genitori?
«Non c’ero ma la storia familiare narra che mio papà portò in ospedale a mia mamma un grande mazzo di dalie. Per Deborah nessuna leggenda, era un nome che piaceva molto a entrambi. Ho fatto fatica negli anni a far perdere le tracce di quelle due acca».
Mamma e papà rappresentavano due modi differenti di stare nello spettacolo. Di quali argomenti discuteva con loro?
«Con papà da più grandicella parlavamo sempre del nostro lavoro.
Idee, iniziative, retroscena, pettegolezzi, tutto quello che riguardava lo spettacolo era un gioco. Anzi era il nostro gioco preferito.
Passavamo nottate a fare scenari improbabili e a ridere come pazzi delle stranezze dell’ambiente. E prima della politica, era sempre coinvolta anche la mia mamma. Mio padre mi portava dai medici, andava a parlare con i professori a scuola».
C’è una stagione che le resterà per sempre nel cuore?
«Le estati in Versilia, piene di allegria e ingenuità giovanili. Da giugno ci trasferivamo a Viareggio e tornavamo a Milano solo in ottobre. I miei si erano conosciuti a un servizio fotografico dove la modella convocata per un imprevisto lasciò spazio a una sostituzione improvvisata di mia mamma diciottenne. Non è stato amore a prima vista, ma poi si sono incontrati di nuovo a una festa e lì è scattato qualcosa. Erano entrambi giovanissimi e bellissimi. All’inizio degli anni ’80 comprarono la casa di Viareggio, un rifugio, la Padula, che oggi protegge me».
Prima della politica, ha sottolineato poco sopra. Ombretta di destra, Giorgio di sinistra.
Immagino le battaglie casalinghe.
«Non hanno mai litigato in maniera irreparabile. Le posizioni culturali non erano tanto distanti e anche in caso di contrapposizione avevano l’abitudine di essere completamente rispettosi l’uno dell’altra. Si amavano, tutto qui. Le litigate a casa nostra erano lunghissimi silenzi».
Lui e Ombretta hanno sfiorato il divorzio?
«Mai. Quando mia madre ha deciso di fare politica, c’è stato qualcuno della sinistra che persino pubblicamente ha invitato mio padre a separarsi. Lui ne rimase profondamente offeso».
Essere comunista, che cosa significava per Giorgio Gaber?
«Diceva che era di sinistra, non della sinistra. Spesso è stato contestato dai compagni del partito e a volte anche violentemente, con la chiusura di alcune sale strategiche del circuito teatrale emiliano. Ma la lirica di Qualcuno era comunista non credo lasci spazio a dubbi. Magari poi la sinistra si è un po’ spostata dal rigore morale e civile che lui professava in ogni singolo aspetto della vita, eppure l’amore non è finito. Non divideva il mondo per classi socio economiche. Magari per levatura morale, ovunque risiedesse. L’uomo era il soggetto che professionalmente lo appassionava di più con i suoi pensieri, con le sue nevrosi. I piccoli eroismi e i lati più meschini».
Era un solitario?
«Il suo personale jet leg lo costringeva a una vita particolare. Le sue giornate erano scandite con una precisione svizzera: verso le 5 in teatro, prove, toast con Paolo Dal Bon, il meraviglioso presidente della attuale Fondazione Gaber, spettacolo sold out. Al termine cena e incontro con chi lo era andato a vedere con dibattito appassionato sui temi dello spettacolo. Era molto più interessato a chi esprimeva con buoni argomenti il suo disaccordo. E a quel punto dalle 3 alle 6 circa, pensieri appunti, chitarra nelle stanze di hotel e decine di sigarette. La sveglia a quel punto era inevitabilmente verso le tre del pomeriggio».
Chi sono stati i suoi compagni di viaggio?
«Enzo Jannacci, Mina, Franco Battiato, Roberto Calasso, Fleur Jaeggy, Majid Valcarenghi. C’è stato un lungo periodo in cui ha frequentato Cochi e Renato e a Bologna non mancava mai una cena con Guccini o con Dalla. E poi i suoi più stretti collaboratori come Giorgio Casellato o Gianfranco Aiolfi, gli amici di Radio Popolare, Gino e Michele. E tutti quelli del teatro come Sandro Luporini, il suo principale collaboratore, e Paolo Rossi».
Che cosa ricorda del sodalizio con Jannacci?
«Avevano un legame profondo.
Vederli lavorare al Goldoni di Venezia per il loro Aspettando Godot è stato un privilegio. Erano come due compagni di classe che si ritrovano, nel clima continuo della gita scolastica. Anche quello a Venezia è stato un periodo bellissimo. Era direttore del Teatro Goldoni e del Toniolo di Mestre. E in estate produceva una manifestazione dedicata alla comicità, Professione comico , dove sono veramente passati tutti i più grandi».
Come è nato il Signor G?
«Erano i primi tentativi di arrivare a una dimensione propria. Era stufo della strada del successo facile, super popolare della televisione. Sentiva l’urgenza di dire delle cose in cui credeva. Lui e Luporini hanno avuto l’intuizione di parlare di un uomo normale, un uomo qualunque, un qualsiasi signor G».
Quando incontrai Luporini mi parve un uomo che viveva con due cuori, il suo e quello di Giorgio. Che cosa li ha resi straordinari assieme?
«Luporini passava gli inverni a Viareggio a dipingere, a leggere, in una vita tutta sua, completamente distaccata dalla frenesia della città.
Le passeggiate sul mare, la natura, il bar Casablanca, l’esperienza della Comune. Mio padre era sempre al centro del casino, in mezzo alla gente, a Milano, la città che più di ogni altra stava crescendo culturalmente, politicamente. Il movimento, gli anni del ‘68, la Statale, Mario Capanna. Universi lontani che si incontravano con il desiderio di convergere verso un punto di vista comune. Erano diversissimi e del tutto complementari».
Giorgio è stato un cantautore, un poeta o un teatrante?
«Un artista. Diceva spesso che nella vita ci sono quelli che vogliono passare alla storia e altri alla cassa. A lui interessava dire quello che aveva in mente, senza filtri, permettendosi il lusso di una libertà assoluta.
Quando è capitato che alcune recensioni lo bastonassero, lui le appendeva in bella evidenza nei foyer del teatro: bene, facciamola leggere, che sia la gente a decidere».
Aveva un suo Dio?
«Non era affatto religioso, e gli dispiaceva. Ha sempre pensato che la fede sia una forma di conforto eccezionale. Possedeva una sua spiritualità e una grande passione per l’umanesimo».
Come ha affrontato la malattia?
«Con grande lucidità. Non aveva paura della morte».
Quali sono le ultime parole che le ha detto?
«Le ultime conversazioni sono state per salutarci. Mi disse che era dispiaciuto di non poter più giocare con noi».
Cosa state organizzando per il ventennale della sua scomparsa?
«Lavoriamo a una nuova edizione di Milano per Gaber e del festival che facciamo in Toscana. Ma l’obiettivo è quello di potenziare la divulgazione della sua opera nelle scuole».
C’è qualche suo brano che si ritrova spesso a canticchiare?
« Goganga , che mi faceva molto ridere da piccola. Poi Io se fossi Dio e
Qualcuno era comunista , infine Non insegnate ai bambini , che è arrivata con la nascita dei miei figli Lorenzo e Luca».
A pensarci bene non ha proprio nulla da rimproverargli?
«Beh, di essere andato via troppo presto, aveva 63 anni. E poi che mi batteva sempre a scacchi e a biliardino».