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 2021  settembre 26 Domenica calendario

Ritratto di Terry Gilliam

Ogni volta che lo incontri, finisci per chiederti se faccia sul serio o scherzi, qualunque argomento affronti, ma poi capisci che per lui non c’è una grande differenza: non si tratta di mancanza di rispetto per il tema che discute o per il suo interlocutore, ma qualcosa di profondamente radicato nella sua concezione dell’esistenza. Terrence Vance Gilliam, per tutti Terry, ritiene che la vita sia un viaggio pieno di ingiustizia e dolore, ma proprio per questo pensa che riderne rappresenti l’unica saggezza, forse anche l’unica salvezza. Lavora e vive a Londra, con lunghi soggiorni in Umbria, dove possiede una tenuta a Montone, ma è americano, cosa che in molti dimenticano: è nato infatti a Minneapolis, nel Minnesota, ma ha passato l’infanzia e l’adolescenza Los Angeles, dove il padre trasferì la famiglia quando cambiò il lavoro da rivenditore di caffè in falegname. A scuola era uno studente ammirato dai docenti per precisione e fantasia, ma le sue letture erano principalmente i fumetti, in particolare Mad, che diventò un’ispirazione imprescindibile di tutto il suo lavoro. Sin da giovanissimo cominciò a rivelare uno spirito assolutamente anarchico, e a provare un sentimento di rivolta nei confronti di ogni forma di autoritarismo e burocrazia. Una volta confidò a Salman Rushdie: «Se fossi rimasto in America probabilmente sarei diventato un terrorista, ma poi mi resi conto che ero più bravo a disegnare i fumetti che a fabbricare le bombe». Anche quando i suoi film hanno elementi estremamente romantici, come ne La leggenda del re pescatore, il suo approccio è sempre dirompente, esplosivo, incendiario, e l’ironia, spesso cupa, nasce dall’indignazione: nella stessa conversazione con Rushdie racconta di quando veniva regolarmente fermato dalla polizia per il semplice fatto di avere i capelli lunghi, e di come quelle vessazioni gli abbiano fatto capire cosa potesse significare essere una persona di una minoranza discriminata. Iniziò a dedicarsi professionalmente all’animazione, e tra i collaboratori di Help! incontrò John Cleese, che lo convinse a trasferirsi in Inghilterra, dove entrò a far parte del Monty Python’s Flying Circus. Gli sketches partoriti da questo gruppo di persone geniali e scanzonate divennero immediatamente di culto, per la miscela di humor britannico, nonsense e anarchia allo stato puro, che lui arricchì con fotografie vittoriane, fluorescenze, e riferimenti intrecciati sia alla cultura highbrow che a quella lowbrow. È il periodo in cui pubblica Animations of Mortality, una guida ironica sull’animazione, e poi dirige insieme a Terry Jones Monty Python e il Sacro Graal, a cui fanno seguito Brian di Nazareth, Il senso della vita e I Banditi del tempo, che dà inizio a quella che ha definito la «trilogia dell’immaginazione». Diffida da ogni categoria critica, ma è lui stesso a dividere così i suoi film: della prima trilogia fanno parte anche Brazil, che diviene un successo di culto, e Le avventure del Barone di Munchausen, che ottiene invece esiti disastrosi al botteghino. Oggi riflette sul fatto che il pubblico lo segua con maggiore interesse quando racconta la sua angoscia nei confronti dell’autoritarismo e della burocrazia rispetto a quando celebra la celebrazione della fantasia: in particolare in questo grande film sfortunato non è il sonno della ragione a generare mostri, ma la ragione stessa a portare inevitabilmente alla catastrofe, all’oppressione e alla dittatura. La seconda trilogia è girata negli Stati Uniti: La leggenda del re pescatore, da una splendida sceneggiatura di Richard La Gravenese, La leggenda delle dodici scimmie e Paura e delirio a Las Vegas, tratto dal libro di Hunter S. Thompson. Il più riuscito e commovente è di gran lunga il primo: una vicenda di perdizione e redenzione ambientata in una New York immaginifica dove ritorna il Sacro Graal, questa volta nascosto in un edificio dell’Upper East Side. Ed è in questo film che realizza una sequenza indimenticabile, con tutte le persone che affollano la Grand Central Station che danzano il valzer grazie alla forza dell’amore dei protagonisti. «Amo il termine realismo magico – spiega – è un modo di espandere il modo in cui vedi il mondo. Viviamo in un’era in cui siamo costretti con violenza a pensare cosa sia il mondo. La televisione e ogni cosa ci spiega cosa sia il mondo. Ma non è quello: il mondo, è invece un milione di cose possibili». È eloquente che il suo stile cinematografico, spesso al confine dell’allucinazione, si contraddistingua per l’uso di grandangoli estremi: «Mi dà la sensazione di essere a mia volta dentro il film – mi spiegò – e inoltre non costringo il pubblico a concentrarsi solo su un elemento dell’inquadratura». Nel corso di un incontro a Roma mi parlò di almeno cinque progetti diversi, tra i quali un adattamento del Racconto di due città di Dickens, e poi mi disse: «Detesto i film che danno risposte: io cerco invece di lasciare lo spettatore con delle domande». Poi spiegò che «chi vuole fare cinema deve studiare l’arte e la filosofia… solo in quel modo possono volare». Negli anni ha dimostrato di essere un ottimo direttore di opera lirica, mentre tra i tanti cinematografici progetti mai realizzati c’è Harry Potter: era stata la stessa Rowling, sua grande ammiratrice, a suggerirlo come il regista ideale, ma la Warner Bros, terrorizzata dalla sua reputazione anarchica, preferì Chris Columbus, più docile e commercialmente meno a rischio. Lui reagì definendo il film «stupido e senza alcuna qualità», poi elencò i film di successo che ha rifiutato di dirigere: Alien, Forrest Gump, Braveheart e Chi ha incastrato Roger Rabbit? «Sarei molto più ricco – mi disse – e oggi i dirigenti di Hollywood mi inseguirebbero con proposte di ogni tipo. Ma sarei anche molto più infelice». Rimase serio solo per un attimo, poi concluse: «Hollywood è un posto orribile, e il Dio dell’Antico Testamento lo distruggerebbe, il che sarebbe un bene per il mondo, salvo che verrebbero distrutti anche dei buoni ristoranti».