Specchio, 26 settembre 2021
Storia di Roberto Succo, assassino per diletto
Quando l’ispettore Michel Morandin e l’agente Claude Aiazzi hanno guadagnato l’ingresso dell’albergo Premar, nell’anonimo palazzo al civico 19 di place General Monsenergue a Tolone, pensavano di raccogliere le testimonianze di alcuni dipendenti per poi tornare al commissariato e quindi cenare con i loro familiari. In un bar, una lite di gelosia per delle ragazze era degenerata in rissa e un certo André aveva messo ko due malviventi. Aveva rotto il naso a Joseph Alberti e sparato a Jacky Volpe che rimarrà paralizzato. Bisognava quindi capire chi fosse questo misterioso giovane palestrato, sentendo alcune persone.
È il 28 gennaio del 1988 quando all’improvviso, in pochi secondi, una normale azione di polizia si trasforma in incubo. Proprio André si materializza nella hall, punta ai due agenti, spara all’impazzata. Attoniti, i poliziotti non hanno il tempo di reagire. Aiazzi subito crolla ferito a terra, Morandin, colpito al braccio e a una gamba, genuflesso, inizia a supplicare quell’uomo che lento, inesorabile, si avvicina, mirando con la rivoltella alla testa dell’agente: «Ti prego, ti prego - invoca l’ispettore di soli 33 anni - Non ammazzarmi!». Ma non serve a niente: «Io ti uccido» gli sibila André, prima di premere il grilletto e ammazzarlo all’istante. Poi fugge in Svizzera per consumare stupri e omicidi.
Era la prima volta che Morandin vedeva quest’uomo, non sapeva chi fosse, non immaginava quanto odiasse le divise. Né, soprattutto, lontanamente poteva solo ipotizzare che quel ragazzo avesse già ucciso con inaudita ferocia più e più volte. La foto di André finisce su tutti i giornali tanto che una ragazza di 16 anni in Savoia, ad Aix-des-Bains, si presenta in gendarmeria per protestare: «Ma quale André! Quel ragazzo è un mio amico italiano, si chiama Roberto Succo». E si apre un mondo.
La scia di sangue era iniziata nel 1981 quando Roberto Succo, classe 1962, liceale della V D allo scientifico Morin, aveva eliminato i suoi genitori nella loro casa in via Terraglietto a Mestre. Prima aggredisce la madre Marisa Lamon in cucina con un coltello dalla lama di venti centimetri, che aveva nascosto sotto il divano. Infierisce sul corpo per 32 volte, dopodiché va in camera, prende una piccozza da speleologo e le dà il colpo finale sulla nuca.
Marisa resiste, ha dei sussulti, disperata è aggrappata alla vita. Il figlio se la carica sulle spalle, la porta in bagno, riempie la vasca d’acqua e l’annega. «Ho ucciso mia madre – racconterà agli inquirenti - perché era un drago a due teste, mi negava ogni più piccola libertà. L’ho colpita con un coltello da boy scout, quindi le ho inflitto altre coltellate perché non era ancora morta, poi ho trascinato il corpo nel bagno e l’ho infilato nella vasca, riempendola d’acqua, in modo che, entrando nei polmoni, il corpo smettesse di contrarsi».
Poi attende il padre Nazario, 53 anni, che deve rientrare dal secondo distretto di pubblica sicurezza, a san Marco, dove lavora da 25 anni come archivista. Quel giorno il turno finisce alle 23. Appena l’appuntato varca l’ingresso, è la fine: «Da piccolo sezionavo gli animali dopo averli cloroformizzati... Mio padre invece l’ho colpito subito perché non volevo che soffrisse per avere un figlio assassino e la moglie uccisa. Quindi l’ho finito con un’accetta. Non dalla parte del taglio ma dall’altra. Ho portato il suo corpo in bagno, con un sacchetto di plastica in testa perché non sporcasse per terra. Questo è successo alla mezzanotte di venerdì e fino alle cinque sono rimasto a casa a preparare i bagagli; ho preso la pistola d’ordinanza poi con l’Alfasud di mio padre mi sono recato da uno zio a Brescia; sabato sono tornato a casa a Mestre per vedere che cosa era successo e, infine, mi sono diretto in Friuli, dove era nato mio padre».
E proprio lì, quasi al confine con l’allora Jugoslavia, viene arrestato. Gli psichiatri Cabrini e Introna diagnosticano una «schizofrenia con inerzia affettivo-motoria e spunti deliranti monotematici» tanto da portare i giudici a ritenerlo incapace di intendere e volere e affidarlo per dieci anni all’ospedale psichiatrico-giudiziario di Reggio Emilia.
La tragedia poteva concludersi qui per questo ragazzo solitario, sprezzante, dal carattere chiuso e disarmonico. Per cinque anni torna la luce. Succo mostra un buon recupero, risponde alle sollecitazioni dei medici e dei farmaci tanto da conquistare, a metà pena, la fiducia di chi lo ha in cura, che gli concede dei permessi premio. Ma è soltanto pura simulazione. Succo, dopo il suo primo duplice delitto, diventerà uno dei più spietati, imprevedibili, serial killer italiani.
Il 17 maggio 1986 evade e si rifugia in Francia, sparendo per oltre un anno e mezzo, fino all’assassinio dell’albergo a Tolone nel gennaio del 1988. Dopo aver eliminato Morandin, Succo fugge e compie altri reati: il 3 aprile ammazza un brigadiere, André Castillo, con un colpo di pistola alla gola ad Aix-les-Bains. Passano tre settimane e il 27 aprile tocca al dottor Michel Astoul, trovato senza vita in un fienile di Sisteron, nell’alta Provenza.
La polizia francese è convinta che sia l’autore di diversi altri delitti insoluti nella zona alpina del paese: da quello della giovane euroasiatica France Vu-Dinh, uccisa a Annency, alla violenza sessuale e l’omicidio di Claudine Duchosal a Menthon-Saint Bernard, nell’alta Savoia, il 24 ottobre 1987. Senza l’identificazione di quella ragazza le indagini sarebbero rimaste al buio, un’innumerevole serie di furti, rapine, stupri, aggressioni, sequestri e omicidi tra Italia, Svizzera e Francia sarebbero rimasti insoluti.
Succo sfuggiva a tutti quei parametri indispensabili per profilare e individuare un assassino seriale. A differenza degli altri, ammazzava a caso ma anche persone che conosceva, utilizzava mezzi letali di ogni tipo, dall’accetta all’acqua, dalla pistola alla piccozza, colpiva come in casa così nei boschi e in strada. Non lasciava la «firma» sulla scena del crimine e, soprattutto, sembrava agire privo di movente, tanto che gli venne affibbiato il soprannome «l’assassino senza ragione».
Dopo l’omicidio di Morandin, in Francia scatta una gigantesca caccia all’uomo ma di lui nessuna traccia, sembra un fantasma. In treno è tornato in Italia, accompagnato da una ragazza francese che non sa chi sia veramente. Qualche passo falso e viene individuato nelle campagne di santa Lucia di Piave. Ad ammanettarlo è il brigadiere Raffaele Ruggiero, agente di polizia che aveva lavorato a lungo col padre del criminale: «L’ho conosciuto bambino e ho arrestato un mostro».
Dalla tasca dei pantaloni spunta una carta d’identità falsa, intestata a tale Antonio Condino di Cosenza, ferroviere. In borsa tiene 60 mila franchi francesi (circa 15 milioni di vecchie lire), 400 mila lire, una manciata di banconote estere tra dollari, marchi e sterline. E, ovviamente, un coltello da cucina e una pistola con proiettile già in canna, pronta a far fuoco.
A interrogarlo per tutta la notte sarà l’allora capo della squadra mobile di Treviso, Francesco Zonno. «Uccido per piacere, uccidere è il mio mestiere», gli urla in faccia tra strafottenza, arroganza e narcisismo. Ma Zonno non si scompone. «Andava a trovare una ragazza conosciuta in treno. Sua mamma ce lo aveva segnalato. In Italia era ricercato per evasione, nulla sapevamo ancora degli omicidi. È stato un appostamento durato due giorni e quando si è presentato all’appuntamento ha trovato due poliziotti nel garage, Moreno Bordignon e Alessandro Scantamburlo. Li avevo scelti particolarmente muscolosi perché Succo era assai robusto. Li ha salutati ed è scappato tra i campi. Gli agenti lo inseguivano, riuscendo a prenderlo solo pochi metri prima che arrivasse all’auto, parcheggiata a un chilometro, dove teneva la pistola. L’arresto gli fece crollare il mondo addosso. Arrivò in questura sentendosi sconfitto ma si riprese subito. Mi sembrava un tipo particolarmente sveglio, aveva gli occhi dappertutto. Parlava a getto continuo, aveva la smania, voleva far vedere quanto era bravo. «Sono un tueur, un assassino», diceva ai magistrati. Si vantava dei conflitti a fuoco con la polizia francese, dei reati, di aver sequestrato e violentato diverse donne, di aver ammazzato dei miei colleghi. Noi non sapevamo nulla di questi sei omicidi. Poi, dopo pochi giorni, accadde l’inverosimile».
Infatti, dopo l’interrogatorio viene portato in carcere, ma già dopo tre giorni tenta di nuovo una tanto clamorosa quanto improbabile fuga, durante l’ora d’aria. Elude i controlli a vista della polizia penitenziaria e, grazie al fisico atletico, balza di tettoia in tettoia, si aggrappa a sbarre e inferriate sino a raggiungere il tetto da dove salta per arrivare a quello del palazzo di fronte.
Uno show che finisce in televisione grazie alle immagini in diretta registrate da una tv locale che ha la redazione proprio lì vicino. Succo lancia tegole ai carabinieri, improvvisa a torso nudo una conferenza stampa. Insomma, delira per poi aggrapparsi a un cavo per l’ultimo colpo di scena, ma invece di fuggire cade e si frattura tre costole. Finisce nel carcere di Vicenza dove si toglie la vita infilandosi un sacchetto in testa. Proprio come aveva fatto per finire suo padre.