La Stampa, 26 settembre 2021
Intervista d’addio a Chiara Appendino
Manca una settimana, «ma io sono ancora totalmente concentrata sulle molte cose da fare e sui dossier aperti. Il cambiamento radicale penso che lo avvertirò dopo, con la nascita di Andrea». Chiara Appendino sembra sospesa in un limbo: la fine del mandato, un futuro ancora tutto da scrivere, l’imminente nascita del secondo figlio. «Mi fossi ricandidata sarebbe stata la seconda campagna elettorale in gravidanza. Ma sarebbe stata durissima: rispetto a cinque anni fa mi stanco di più e Andrea la notte me la fa pagare».
Sindaca, il risultato del M5s a Torino sarà un giudizio su di lei?
«Valentina Sganga è la persona migliore per dare continuità a questo percorso avviato, credo e spero che faccia un buon risultato. Ma non temo il voto: è un momento democratico, comunque vada non ho nulla di cui pentirmi».
Da mesi ripete che se il M5s arriverà terzo, al ballottaggio non appoggerà nessuno. Davvero per lei è indifferente che al posto suo governino Pd e alleati o Lega e Fratelli d’Italia?
«A livello nazionale la mia prospettiva politica è quella di Giuseppe Conte: un fronte progressista avversario del centrodestra».
Una strada senza ritorno o una prospettiva reversibile? Una parte del M5s, Di Maio ad esempio, continua a dialogare con pezzi di Lega.
«Conte ha delineato una strada che io condivido e sono sicura che lavoreremo tutti nella stessa direzione. Di Maio ne ha già dato prova essendo stato protagonista di una mediazione fondamentale per il nuovo corso del M5s quando tutto sembrava infrangersi».
Su che cosa può saldarsi un fronte progressista?
«Ad esempio su proposte come il salario minimo, una battaglia di civiltà che rivendichiamo. Sono felice che si stia costruendo un campo più ampio per la sua introduzione».
Torniamo a Torino e al Pd.
«Mi chiedo perché qui non sia stato possibile costruire quel fronte progressista».
E che cosa si risponde?
«Che non mi sento garantita dal centrosinistra torinese rispetto ai temi che mi stanno a cuore. Si sono chiusi in se stessi rifiutando di costruire un progetto politico innovativo cui noi e anche parte del Pd nazionale eravamo pronti a dar vita. Per me l’amministrazione Fassino e anche quella precedente su tanti temi si confondono con il centrodestra. Detto questo, non è me che devono convincere ma gli elettori; e possono farlo solo dimostrando di aver fatto proprie le istanze di cambiamento e innovazione radicate in città, cosa che al momento non vedo. Sembra siano fermi al 2016».
Che ricordo ha di cinque anni fa?
«Avevo la sensazione che le persone volessero un cambiamento, qualcuno che mettesse fine a situazioni irrisolte. C’era un distacco tra la narrazione della città e la percezione delle persone».
E oggi? Si riconosce nella narrazione di una Torino un po’ malinconica che non sa ancora quale direzione prendere?
«Il dovere di un amministratore è dire le cose come stanno senza il timore che sembri una ammissione di colpa o un segno di debolezza. Torino ha problemi a lungo tenuti sotto il tappeto: per troppo tempo l’industria non è stata al centro del dibattito. E quando noi abbiamo cominciato a parlare di area di crisi c’era chi storceva il naso perché la parola dava una cattiva immagine della città».
Ma se Torino è un’area di crisi non è anche colpa sua?
«Io non dico che puntare su turismo e cultura sia stato un errore, anzi, abbiamo continuato a farlo: ad agosto siamo già tornati alle presenze del 2019, Ryanair dopo anni di tentativi andati a vuoto ha deciso di insediare qui una base. Torino, oggi, è una delle città più attrattive in Europa, come sostiene Airbnb nel suo ultimo report. Ma esisteva un problema di politiche industriali. Io non ho mai avuto paura di dirlo e così abbiamo avuto accesso allo strumento dell’area di crisi, sono partiti i distretti, un progetto intorno a cui si sono riunite le forze economiche, gli atenei, i sindacati. Abbiamo trovato aree e fondi. Tra quattro-cinque anni arriveranno le prime imprese. Abbiamo tracciato una strada per il futuro condivisa da tutti».
Se lei oggi fosse candidata alle elezioni come giudicherebbe Appendino sindaca?
«Penserei che l’amministrazione uscente ha fatto un lavoro molto complesso per risanare i conti. E che chi arriverà dopo potrà fare gli investimenti che la mia giunta, e quella precedente, non si sono potute permettere, e attraverserà una fase economica molto diversa, non solo grazie alle risorse del Pnrr».
C’è qualcosa che si rimprovera?
«Ogni sera di questi cinque anni mi sono rimproverata qualcosa. Se potessi tornare indietro non aspetterei a commissariare il Teatro Regio nella speranza di risanarlo. E farei di più per quel pezzo di Barriera di Milano dove non è stato percepito un cambiamento. Arriverà la linea 2 del metrò, ma non in tempi brevi. Avremmo dovuto dare anche segnali più immediati per incidere sulla qualità della vita».
Molti pensano che la sua squadra non sia stata all’altezza di una grande città.
«Aver insediato una giunta di soli tecnici ha reso le cose più difficili da un punto di vista politico, all’inizio. È un limite che abbiamo corretto in corsa, portando risultati».
Chi la critica sostiene che abbia delegato ad altri – ora le fondazioni, ora la diocesi, ora il governo – la soluzione di problemi che non riusciva ad affrontare. È così?
«I problemi complessi non si risolvono da soli. Questa città ha creato un modello che si basa sul coinvolgimento e sulla condivisione. Un modello riconosciuto dal governo e che verrà replicato a livello nazionale con cui si è liberato il Moi senza tensioni, riqualificato la Cavallerizza trattando con chi l’aveva occupata, chiuso i campi rom senza contraccolpi. Tutti si sono fatti carico dei problemi ma non è mai stato in discussione di chi sarebbe stata la colpa se qualcosa fosse andato storto. Mia».
Piste ciclabili, gestione del traffico, droni, tessere elettroniche per i cassonetti dei rifiuti. Molte di queste scelte hanno scatenato reazioni di rigetto.
«I cambiamenti provocano reazioni. Per troppi anni la città era rimasta ferma su alcuni temi: l’ambiente, l’apertura a nuove forme di mobilità urbane, l’innovazione. Sapevo che ci saremmo scontrati con delle resistenze ma siamo comunque andati avanti e abbiamo tracciato una strada.
Perché non ha convinto tutti?
«All’inizio ho percepito la frustrazione di chi si aspettava questo cambiamento e non lo vedeva arrivare. Ora che si percepisce, c’è chi non lo condivide. È normale, ma sono temi sui quali non si tornerà indietro: la differenziata dovrà aumentare ancora e nel Pnrr ci sono 600 milioni per le piste ciclabili. Li lasciamo ad altri?
Rifarebbe i droni a San Giovanni?
«Sì, i droni volano in tutto il mondo. Abbiamo coinvolto decine di aziende, alcune hanno poi investito qui. L’innovazione non si fa chiedendo permesso, né la si subisce. Va cavalcata».
Cosa dirà al suo successore?
«Che su questi temi – ambiente, mobilità, innovazione, diritti – sarebbe un grave errore tornare indietro».
Mezza città non le perdona il no alle Olimpiadi.
«Non alle Olimpiadi ma a due gare su 17. È di questo che stiamo parlando: rifare in piccolo e in modo subalterno ciò che avevamo già fatto in grande. Ho creduto nella candidatura di Torino, l’ho portata avanti anche se una parte del Movimento 5 Stelle non la condivideva. Ma i Giochi con Milano e Cortina erano un’opzione perdente: saremmo stati marginali e soprattutto non avremmo avuto le Atp Finals, cinque anni in cui avremo tutti i riflettori per noi».
Quanto l’ha segnata la notte di piazza San Carlo?
«È stato un momento molto difficile».
Trova ingiusta la condanna?
«Abbiamo fatto ricorso in appello. Non voglio parlare della mia situazione ma mi auguro che siano introdotte norme che tutelino maggiormente i sindaci. Questo è l’incarico politico più gratificante che si possa svolgere ma dal punto di vista famigliare, personale, economico e delle responsabilità chi lo ricopre ha tutto da perdere. Per questo vorrei ringraziare le migliaia di sindaci che mi sono stati vicini, a partire dal presidente dell’Anci Decaro».
C’è stato un momento in cui ha pensato di dimettersi?
«Mai. Però c’è stato un momento in cui non sapevo se sarei rimasta al mio posto. Quando ho sostituito il vice sindaco (Guido Montanari, ndr) ho deciso da sola senza avvisare nessuno. Mi sono detta che se non cambiavamo in quel momento sarebbe stato meglio farsi da parte. Non ero sicura di quel che sarebbe successo, anche al nostro interno. È stata una svolta: la seconda parte del mio mandato è quella di cui vado più fiera».
Le unioni civili, i bambini con genitori dello stesso sesso, il gap di genere, i vaccini: in questi anni si è esposta personalmente su molti temi, perché?
«Credo che chi riveste ruoli di responsabilità debba dare il proprio contributo a quei cambiamenti sociali e culturali di cui il Paese ha bisogno. Rivendico tutto, anche di aver chiesto di essere chiamata sindaca: i bambini devono sapere che una donna può accedere alle stesse possibilità di un uomo. Da queste battaglie per me non ci si può sottrarre. Se non si espone chi è in prima linea come possiamo immaginare che lo facciano gli altri?».