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 2021  settembre 26 Domenica calendario

Il mio amico Jerry Lewis non era picchiatello

L’imitazione è perfetta. Quando dall’altro lato della cornetta, al telefono con «la Lettura» dalla sua casa nei dintorni di Los Angeles, Peter Bogdanovich cita frasi del suo amico Jerry Lewis, gli viene automatico farlo con la voce di uno dei più grandi comici della storia. Un tono inconfondibile, quella del celebre «picchiatello», da noi doppiata da Carlo Romano rispettando le note stridule che assecondavano smorfie e mimica da divo del muto pronto a cogliere ogni occasione per scatenare una risata. «Avreste dovuto vedermi al Copa, ve la sareste fatta sotto da quanto ero divertente», ricorda Bogdanovich: era la risposta puntuale che l’attore e regista Jerry Lewis, al secolo Joseph Levitch, figlio di immigrati russi di origine ebrea, gli dava per chiuderla lì. Un’amicizia durata 56 anni tra i due, nata per caso nel 1961, quando Bogdanovich, prima di farsi spazio a Hollywood come critico, sceneggiatore, regista, attore e storico del cinema, si manteneva collaborando con alcune testate, come ricorda nella prefazione all’autobiografia del comico, Jerry in persona, finora inedita in Italia e in uscita per Sagoma.
Come vi siete conosciuti?
«“Esquire” mi spedì a Los Angeles per un reportage dai set di Hollywood. Volevano che cogliessi l’aria del tempo. Avevo già incontrato diverse persone, mi dissero: “Vuoi vedere Jerry Lewis mentre gira? Non puoi parlarci ma assistere sì”. Il film era L’idolo delle donne, lui era all’apice della carriera: il ragazzo d’oro della Paramount. Sono andato sul set. Scherzava con tutti, dava soprannomi a tutti, tutti ridevano, con le persone della troupe era divertente. Era davvero bravo come regista, gli bastava un’occhiata. Mi limitai a osservare, riuscii a malapena a parlargli. Quando il pezzo fu pubblicato il caporedattore, il leggendario Harold Hayes, mi propose di continuare con un profilo su di lui».
Uscì con il titolo «Mr Lewis is a pussycat», è ancora un classico. 
«Tornai in California, e abbiamo passato tre settimane insieme, sul set, a casa sua, ovunque. Gli piacque così tanto, perché tutto quello che avevo scritto era vero, che fece delle copie e le regalava in giro. E noi siamo diventati amici». 
«Dentro di me c’è un bambino di nove anni, faccio ridere e non me ne vergogno. Poi ridivento adulto e passo a ritirare i soldi», disse nel discorso di accettazione del Leone alla carriera, nel 1999. Che uomo era?
«Molto generoso. E pieno di curiosità per gli altri. Per esempio, nel 1968 girai il mio primo film, era un low-budget, si intitolava Bersagli, una commedia . Mi ha detto: “Portalo a casa e ce lo vediamo insieme”. Gli ho portato la pellicola originale, lui aveva un grande proiettore, e abbiamo visto il film, c’era Jerry, sua moglie, e i figli, solo noi. Quando è finito, è impazzito, è stato ore a perdere la testa per il film, voleva sapere come lo avevamo fatto, tutti i dettagli. È stato fantastico, un gesto molto generoso da parte sua, verso un giovane regista. Aveva una pazienza infinita. Era sempre molto incoraggiante. Un’altra volta a me serviva vedere alcuni film del catalogo Paramount e quindi gli ho chiesto aiuto. E lui: “Certo, mettili sul conto della produzione”. Quindi ho cominciato a noleggiare titoli su titoli. A un certo punto mi chiama e fa: “La produzione mi ha detto che hai preso 82 film, adesso basta!”. Però si è fatto carico di tutto e ricordava quella storia per prendermi in giro. Era diventata una gag».
Che cosa c’era di lui in «Re per una notte», «The King of Comedy», di Scorsese?
«Lui era un autentico clown, e come tutti i clown sapeva essere divertentissimo ma aveva un lato molto malinconico e amaro. Ma Jerry ne era consapevole. E sapeva leggere la natura umana e ironizzare anche su sé stesso, sugli uomini terrorizzati nel profondo, ma che fingevano di essere allegri».
Un decennio di connubio artistico con Dean Martin, molta tv e 16 film, finito all’improvviso. Che idea si è fatto del loro divorzio?
«Diciamo un classico, una caso da manuale. Entrambi erano diventati molto importanti, e volevano dimostrare che ce la potevano fare l’uno senza l’altro. Alcuni dicevano a Dean: “Potresti fare meglio di così, non ti serve Jerry”. E a Jerry dicevano: “Non ti serve Dean”. Questa è Hollywood. E quindi alla fine si sono divisi, si sono detti: meglio da soli. Jerry non ha avuto nessun problema, Dean ha fatto più fatica ma poi ha ottenuto grandi successi. Alla fine, è andata come doveva andare».

Lei ha lavorato con autentiche leggende, il catalogo è impressionante: Lauren Bacall, Humphrey Bogart, James Cagney, John Cassavetes, Charlie Chaplin, Montgomery Clift, Marlene Dietrich, Henry Fonda, Ben Gazzara, Audrey Hepburn, Boris Karloff, Dean Martin, Marilyn Monroe, River Phoenix, Sidney Poitier, Frank Sinatra, James Stewart. Mai con Jerry. Perché?
«Veramente un progetto c’era. Volevo fare un film con Jerry e Dean. Esatto. L’idea era di metterli insieme a Frank Sinatra, Jimmy Stuart e Charles Aznavour: The Paradise Road, su un gruppo di giocatori d’azzardo a Las Vegas. I due non si sarebbero parlati per tutto il film, avrebbero comunicato attraverso gli altri. Tipo: “Dì a quel tizio che, eccetera eccetera”, e poi: “E tu dì a lui che”. Avrebbero perso tutto al casinò, fino alle camicie, ma poi avrebbero vinto di nuovo. Ovviamente c’era un lieto fine. E Dean dice: “Voglio vedere i soldi”. Sono nella lounge di questo casinò, gli portano qualche milione di dollari, qualcuno dice qualcosa, e Dean e Jerry si guardano e si sorridono. E a quel punto dal pianoforte si comincia a sentire Yesterday, when I was young, suonata e cantata da Aznavour. Impossibile non commuoversi».
Perché non l’ha girato?
«Questa era la storia, l’ho raccontata a Frank, e mi ha chiesto: “Come farai ad averli insieme?”. E io riposto: “Non lo so». Mi fa: “Tu parla con Jerry, io parlo con Dean”. “Buona idea”. Quindi l’ho detto a Jerry, e lui mi ha risposto: “Sì, lo farò per te, Bogdanovich, perché voglio vedere il progetto che ti esplode in faccia, oppure che ha successo. In ogni caso ci sto, qualsiasi cosa accadrà andrà bene, lo farò”. E anche Dean l’avrebbe fatto. Poi non so più chi, forse Sinatra, si è tirato indietro. È saltato, come succede sempre, ma so che lo avrebbero fatto. Sarebbe stato grandioso».
Jerry Lewis invece non ha mai fatto uscire un film diretto e interpretato nel 1972, «The Day the Clown Cried», una commedia drammatica ambientata ad Auschwitz. Le ha detto perché?
«Gli ho chiesto: “Perché non vuoi che esca?”. E lui: “Perché non ha niente di buono. Non è bello, l’ho fatto male”. Non lo ha mai detto in pubblico ma lo ha detto a me, “non ha niente di buono”. E non mi ha mostrato nemmeno una scena».
Tra i rimpianti, il fatto di non avere mai vinto un Oscar, a parte quello per ragioni umanitarie nel 2009, il Jean Hersholt Humanitarian Award. Anche questo vi accomuna.
«Io sono stato nominato una volta o due, ma l’Academy non è mai stata particolarmente aperta verso i comici. La lista degli snobbati è lunga – Buster Keaton, i fratelli Marx, Bill Cosby, Richard Pryor. Insisto, lui era anche un grande regista, basta rivedere un film come Le folli notti del dottor Jerryll. E come attore è stato uno dei pochi capaci di evocare i comici del muto, divertente anche solo con un’espressione del viso. Per non parlare di quello che ha fatto in tv negli anni Cinquanta con Dean Martin».
Vede qualche erede di Jerry Lewis?
«Come lui nessuno».