Tuttolibri, 25 settembre 2021
Pina Rota fo o meglio la mamma di Dario Fo
Come nasce un comico? Nasce da una madre, da una famiglia, da una terra. Come si forma un comico che poi vince il Nobel per la Letteratura? Si forma sui testi, su un mondo, su una storia e sulla lingua. E la lingua è madrelingua. Nel caso, al principio, proprio la lingua della madre: Pina Rota Fo.
Classe 1903, nata nella Lomellina (a Sartirana, il paese delle rane, appunto, dove ancora oggi la rana, oltre che delle risaie, è al centro di tutto: cucina, arte, sport, sagre ed eventi vari), cresciuta in una famiglia con sei fratelli, Pina è stata sarta, madre di Bianca, Dario e Fulvio, moglie del ferroviere Felice, scrittrice.
Intanto, autrice di Il paese delle rane, uscito la prima volta per Einaudi nel 1978 e tradotto in varie lingue. Poi di altri due libri inediti, scritti dopo gli anni cinquanta «aspettando che si cuocesse l’arrosto», ha dichiarato in un’intervista all’uscita del primo).
Nel paese delle rane ci sono paesaggi, voci, animali, storie, nascite, morti, guerra, epidemie, racconti spaventosi ed esilaranti, personaggi memorabili che restano sullo sfondo nella cascina Chietamai. Da Elvira, all’amico veterinario; dalla zia emigrata che dall’America manda foto favolose, ai due gemellini che sopravvivono solo pochi giorni perché con i bambini, a quell’epoca, andava così; dai vari fratelli che si sposano e lasciano casa, ai disertori e coscritti perché in questo libro si attraversano le due guerre mondiali.
Su tutto, due giganti: la mamma Maria, che da piccola è stata mondina e la campagna la detesta, e il babbo Giuseppe, che invece è uno straordinario talento dell’agricoltura e non accetta che i figli, uno dopo l’altro, partano per la città, per la fabbrica.
Giuseppe è noto in paese come Bristìn, che sarebbe in dialetto lomellino il seme dei peperoni, che ti «brucia la bocca e la parola». E dalle parole nasce questo racconto, la storia di questa famiglia: inizia dal padre con quel soprannome, passa per Pina che quelle parole le scrive e arriva a Dario che sulle parole costruisce del gran teatro diventando un magnifico giullare.
Dario ha reso omaggio a quel nonno straordinario ricordandolo spesso. Lo ha fatto nell’autobiografia dei suoi primi sette anni di vita, Il paese dei mezaràt (Feltrinelli 2002, un titolo che è anche un omaggio a questo libro della mamma, con i «mezzi ratti» del Lago Maggiore, cioè i pipistrelli, che in qualche modo fanno il controcanto alle rane, in questi paesi e libri-paesi dell’infanzia). Lo ha fatto ogni qual volta gli è stato chiesto di parlare della sua formazione. Bristìn, per il nipote, è stato il primo Ruzante conosciuto nella vita (Come sono diventato Dario Fo: «La mia vita? Un mistero buffo», intervista a Maurizio Chierici, domani.arcoiris.tv, 4 agosto 2011), il più grande a detta sua: da piccolo gira con il nonno a vendere ortaggi, a bordo di un carro immenso e istoriato pieno di ceste, tirato da un cavallo grande come un elefante, con le orecchie che cadevano in basso, e quando arrivano nelle cascine scoppia la festa. «Lui cominciava a gridare. Raccontava storie in dialetto, ma non proprio storie: cronache indiscrete». E sono risate. Anche molte delle storie che riporta la figlia sono esilaranti, come quando Bristìn parla di attori, quando fa il matto per divertire i nipotini in visita, quando discute con la moglie. È una lingua paradossale, la sua. Lo sa bene Pina che proprio nell’incipit del libro presenta subito quel suo padre perdapé con la sua lingua che alterna il dialetto del Monferrato a quello della Lomellina «un po’ ostrogoto» e all’italiano. Perché Bristìn è anche un contadino che sa leggere e scrivere. E ha studiato sul campo quello che più lo appassiona, cioè l’agricoltura. Sperimentando, osservando, ingegnandosi. Di nuovo Dario, sul nonno, a Carlo Petrini («Le voci della Terra. Dialogo con Dario Fo sulla Natura», la Repubblica, 21 agosto 2012): «Sapeva tutto dei semi. Era un genio negli innesti e nelle selezioni. Per me Sartirana Lomellina era un paradiso terrestre, perché per esempio il nonno mi portava a vedere un suo albero di susine che ne produceva di tutti i colori. Da una parte erano gialle, da una parte rosse, dall’altra quasi nere. Era un albero a chiazze variopinte, uno spettacolo». «Mi faceva assaggiare un pezzetto di peperone e mi chiedeva che gusto aveva. Era dolce, e mi diceva che era così perché stava vicino ai pomodori. Le piante si parlano, si influenzano a vicenda. Sapeva cosa succedeva un metro sottoterra, dove andava l’acqua. Sosteneva che le piante lì sotto si amassero, si uccidessero, si toccassero e si evitassero. Queste cose mi sconvolgevano da bambino, mi sembravano un mondo fantastico». Scienza e racconto. Materia e visione. Scrive Pina: «Lavorava la campagna come un dannato. Il primo a incominciare e l’ultimo a smettere. In estate, dalle stelle alle stelle». E più tardi anche dalle stalle alle stelle, quando, a una certa età, Bristìn sarà chiamato a fare lezione alla facoltà di Agraria. E agli studenti parla, apposta, in dialetto.
La moglie Maria, invece, quel posto non lo ama affatto («le rane sono state una delle piaghe dell’Egitto», dice) e non condivide lo sconforto del marito a ogni partenza di un figlio verso la città, verso la fabbrica. Anzi, accoglie con soddisfazione ogni distacco, ogni matrimonio, ogni impiego nell’industria orafa di Valenza o in quella calzaturiera di Vigevano (quella narrata magistralmente dal grande Lucio Mastronardi nella sua trilogia sulla città lomellina). Lei da piccola, a dieci anni, è stata mondariso. Mestiere durissimo, da donne, immerse nell’acqua putrida della risaia, chine tutto il giorno con mani e piedi macerati, con chilometri da percorrere a piedi all’andata e al ritorno. Se il perdapé si chiama così perché lavora talmente tanto da consumarsi i piedi dentro la terra e gli «obbligati» sono appunto obbligati a fare tutto e restare sempre a disposizione, le mondine lavorano stagionalmente, sono pagate pochissimo in quanto donne e da donne fanno il doppio lavoro, lì e in casa, e rischiano di prendere tremende malattie da zanzare, serpenti, sanguisughe, topi, insetti che infestano quell’ambiente umido. Sfruttate ma coraggiose e fiere, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni cinquanta le mondine sviluppano una coscienza di classe che le vedrà protagoniste di importanti battaglie sociali e di lotte per vedere riconosciuti i loro diritti su paga e orario. Insieme alle loro importanti conquiste, le mondine ci hanno lasciato un repertorio di canti di riscatto e di critica al padrone che sono rimasti nella storia del nostro paese. E c’è critica al padrone e denuncia delle ingiustizie anche in molti dei commenti di Maria, in molte delle notazioni di Pina sulla guerra. C’è il dolore, la paura per i mariti e i figli mandati al fronte; ci sono le gravidanze (Pina calcola che la sua mamma «aveva campato» con un figlio nella pancia dai diciotto ai trent’anni); c’è la vicinanza alla vita e alla morte, ai corpi. Le donne condividono le loro storie, lo fanno soprattutto nella stalla: «La stalla era tutto in quei tempi per noi contadini, specie per le donne: era la chiesa, che lì si pregava, era il teatro, che ci venivano i contastorie a cantare e raccontare per ore». Le donne pregano, temono, piangono. Non si fanno fregare dalle illustrazioni degli atti eroici che appaiono nelle tavole di La Domenica del Corriere: sanno che la loro è la prima linea della carne da macello colpita dalla leva obbligatoria e dalla chiamata in guerra, dove i giovani rimangono ciechi o mutilati, scappano, muoiono, impazziscono. Da sempre.
Allora Elvira bestemmia anche se alle donne non è permesso bestemmiare, «come non è permesso ai bambini, agli scemi e ai preti in pubblico». Forse alle donne non è permesso neanche fare troppo le buffone, allora cantano (le mondine) e scrivono (Pina). Nei canti e negli scritti c’è dolore ma anche amore, così come oltre al lavoro, in paese, ogni tanto ci sono la festa, il carnevale, il rovesciamento.
Ci sono le febbri, le malattie che colpiscono i bambini, c’è la terribile spagnola. È il mondo così com’è sempre stato, con le epidemie degli animali e degli uomini e il seguito di accortezze che si possono prendere in questi casi: lavarsi le mani, tenere pulito l’intestino, evitare le case degli infetti.
L’afta epizootica ogni tanto arriva a spazzare le campagne e i contadini piangono le mucche che si ammalano, alle quali sono molto affezionati: «le chiamavano per nome, erano docili e ubbidienti al loro comando, quando le portavano all’abbeveratoio tornavano al loro posto nella stalla, non sbagliavano mai. Davano loro nomi strani, di fiori, di piante, di animali, di colori».
Persone e animali sono ugualmente vittime dei fenomeni naturali che riguardano la terra. Sono vicini: la mamma con i suoi tanti bambini non è forse la chioccia coi suoi pulcini? («La mamma, con calma e silenzio, ci portava a letto. Il più piccolo in braccio. “La pite con i sò pulsì”, diceva ridendo mio padre»).
È ancora un mondo di animali: mucche, cavalli, galline, oche, anatre. E rane. Rane che ci sono sempre state e che ci sono ancora. Giorgio Boatti, nel suo Un paese ben coltivato. Viaggio nell’Italia che torna alla terra e, forse, a se stessa (Laterza 2014), a proposito di Lomellina oggi e storie di risaie popolate di aironi e altre creature dell’aria e dell’acqua, scrive: «L’unica presenza che non si può ignorare è quella delle rane che, a partire dall’inizio dell’estate, costituiscono la colonna sonora, costante, ossessiva, di questo orizzonte». Rane che, anche se non si vedono, si fanno sentire, dunque, e sono lì da sempre. Rane che però, alla mamma di Pina, sembrano aborti.
Della mamma, Dario Fo ha raccontato a Giuseppina Manin: «La Pina era spiritosa, leggera, curiosa. Era ironica, la Pina. Speciale, persino un po’ strega. Ricordo che ero ancora agli inizi di carriera, ai primi successi sulla scena, e lei, entusiasta, già aveva decretato in famiglia: “Par mi, quel lì el vince el Nobel!”»(Il mondo secondo Fo. Conversazione con Giuseppina Manin, Guanda 2007).
È proprio l’ironia di Pina a fare di questa bellissima e importante testimonianza di una civiltà ormai scomparsa un’opera piena di grazia e letteratura, godibile, preziosa, regalandoci un gioiellino di scrittura limpida e vivida.
Giorgio Agamben, nel discorso per il Premio Nonino assegnatogli nel 2018, riflettendo sulla civiltà contadina (e ricordando, tra l’altro, lo straordinario lavoro fatto da Carlo Levi con Cristo si è fermato a Eboli ), ne rileva la rimozione dalla nostra storia: «Perché se anche qualcosa di essa continua a vivere, noi sappiamo che la civiltà contadina non esiste più, che appartiene al passato. Negli anni in cui io sono nato i contadini costituivano ancora la maggior parte della popolazione italiana, ma la mia generazione li ha visti progressivamente e rapidamente scomparire. È un fatto che non cesserà di stupire gli storici futuri, che per far scomparire una cultura che, nelle sue linee generali, era rimasta inalterata per cinquemila anni, ci sia voluto così poco tempo». Perdita, smemoratezza, rimozione di una civiltà ricca di saperi: mancanze rilevate, di recente, anche da Adriano Prosperi, che al mondo contadino ha dedicato il documentatissimo Un volgo disperso. Contadini d’Italia nell’Ottocento (Einaudi 2019).
Pina Rota Fo ci ha raccontato la vita in una cascina e la vita di una famiglia contadina nella prima metà del Novecento un attimo prima dell’abbandono in massa delle campagne. Lo ha fatto con voce di donna, immortalando in una foto di gruppo gli abitanti della Chietamai.