Tuttolibri, 25 settembre 2021
Elena Ferrante ha un problema con i premi
Con i premi, non necessariamente letterari, ho un rapporto complicato. Li desidero e insieme mi spaventa riceverne. È stato sempre così, a scuola e in varie occasioni della mia vita adulta, fino a oggi, fino a questo premio che – voglio sottolinearlo subito – mi inorgoglisce perché porta il nome di una scrittrice di grande talento.
Dire della fierezza, della gioia, è facile. Non c’è nessun ente che abiliti alla produzione di letteratura, come invece accade, che so, per la medicina, per l’insegnamento, per l’ingegneria. Nemmeno i corsi di scrittura creativa hanno il potere di abilitarti alla narrazione. Sei tu, in solitudine, a decidere di dedicare la gran parte del tuo tempo libero, o addirittura la vita, a scrivere. La scrittura è un tuo azzardo, un tuo estro, un tuo atto spudorato di superbia. Bisogna avere – per capirci – la sfrontatezza di presumere che si posseggano le qualità necessarie per assegnare una forma letteraria significativa alla propria individuale esperienza del mondo, al proprio modo di immaginarlo. Chi si mette in gioco resta in attesa. Il pubblico, la critica, i premi possono dirti educatamente o brutalmente che ti sei montato la testa. O possono trasformare la tua presunzione in una aspirazione ben fondata, discutibile quanto si vuole, ma comunque ben fondata. Nel primo caso si soffre, nel secondo si gioisce. In questo momento, grazie al vostro premio, il mio io che scrive e più spesso scribacchia è entusiasta – ve lo assicuro -, si sente fiero di aver scritto, nell’arco di trent’anni, diverse migliaia di pagine, è insomma felice. Un premio ha il meraviglioso effetto di tirarti fuori dalla tua solitudine piena di dubbi. Chi scrive, almeno per un po’, lo vede come un certificato di sapienza tecnica e di autenticità stilato da qualcuno che ha competenza per giudicare. Gli altri, insomma, entrano in scena e, premiandoti, confermano pubblicamente che il tuo io grafomane ha fatto un discreto, meritevole lavoro.
La pensa così anche una lettrice americana che, in una sua mail affettuosa, mi ha consigliato di vincere al più presto premi importanti. Non ha detto: spero che i tuoi libri vincano premi importanti. Ha detto: tu, tu in persona, devi adoperarti per essere premiata. Era scontenta, perché continuavo a non avere una presenza pubblica. Se manchi tu – diceva senza girarci intorno, – se manca il petto su cui appuntare le medaglie, ti condanni da sola a restare fuori dalle istituzioni letterarie e dalle relative gerarchie di valore. Aveva apprezzato molto, in passato, la mia trentennale riservatezza, ma ora – diceva – basta. La gran parte dei premi comporta pregiudizialmente che chi è premiato assicuri la sua presenza nel corso della cerimonia di assegnazione. Se tu ti sottrai privi noi lettrici e lettori, che a vario titolo abbiamo amato i tuoi libri, del piacere di dire: ecco, avevamo capito per tempo che valevano. Perciò – concludeva – proprio nell’interesse dei libri che hai scritto, è necessario il tuo corpo di autrice.
La mia gentile lettrice sintetizzava in poche frasi concetti che – spero si sia capito – condivido a pieno. Essere premiati è importante. È antichissima la tradizione di assegnare corone d’alloro. Scrivere, quando diventa un atto pubblico, non si esaurisce più in sé stesso. Il valore di un’opera va soppesato e, nel caso, autorevolmente riconosciuto. Eppure, nel suo argomentare, ora sottintendeva ora esplicitava una necessità che, invece, non condivido affatto. Secondo lei, i libri hanno bisogno di una persona monumentalizzabile. Essi non sono semplicemente la concrezione di una intelligenza, il raggrumarsi di un talento. Hanno invece la necessità di un corpo che, esponendosi nell’interezza della sua esistenza, li valorizzi valorizzandosi; un essere umano che in prospettiva si meriti l’ingresso in qualche pantheon, abbia la sua apoteosi già da vivo, faccia da corpo-bambola sulle pagine dei magazine, in televisione, sui social.
Qui, di proposito, sto usando un po’ del lessico di Belle van Zuylen, mescolandolo a quello odierno. Lo sto facendo per renderle omaggio ma anche perché, duecentoventicinque anni fa, mostrava non poche perplessità nei confronti della tendenza a erigere altari per ogni piccolo glorioso operare. C’è un passo che voglio citare:
«Lo scrittore, l’uomo dotto, a mio parere si agita troppo, si mette troppo in vista davanti alla moltitudine, per non perdere qualcosa della sua dignità».
Siamo al capo opposto della mia lettrice americana. Lei pensa che se non ci si agita, se non ci si mette bene in vista, i libri appassiscono. Belle pensa che talento e intelligenza perdano aura, se smaniano per la visibilità. E, attenzione, Belle non sta parlando della nostra odierna affollata medietà intellettuale e letteraria. Il suo bersaglio polemico è l’intelligenza di Rousseau, il grande talento letterario di Voltaire. Sono bravi – pare dire – glielo abbiamo riconosciuto, lo sanno. Ma non sono che uomini, e parte di un mondo nel quale costituzionalmente niente può essere considerato assoluto. Belle, che vive con esaltazione e orrore i tempi della splendida e terribile rivoluzione francese, è scettica sul sangue blu, sulla famiglia, sulla voce del sangue, sull’amore, persino sulla stabilità dei caratteri maschili e femminili. Figuriamoci, quindi, se crede alla sfarzosa esaltazione rivoluzionaria di piccoli uomini di qualità. Se si risvegliasse nel nostro mondo, sarebbe sicuramente divertita dalla nostra fiorente industria della grandezza a misura di televisione e social media. E – mi immagino – condividerebbe la scelta di chi mi ha assegnato questo premio accettando che io sia presente a questa cerimonia solo con la mia scrittura.
Un premio sì, è un onore. I libri sono lì e se meritano di essere premiati, perché no, benissimo, è una festa. Ma mettersi sulla scena e mettersi in scena per riceverne – come suggerisce la mia lettrice – è davvero necessario? Mi sono risposta di no trent’anni fa, continuo a pensarla allo stesso modo. Mi prescrissi allora, tra l’altro: se vorranno assegnare premi ai miei libri, ne sarò felice, ma non andrò di persona a ritirarli. La ragione, a quei tempi, era l’ansia di espormi in pubblico, e l’ansia era così forte che mi sentivo pronta a rinunciare alla gioia di essere premiata. Oggi su quell’ansia so qualcosa in più, posso persino risalire alla prima volta in cui ho sperimentato la mia ambivalenza. Da bambina sono stata premiata, a scuola, per aver letto più libri di qualsiasi altra scolara o scolaro. Ricordo con gioia quel momento, ma ricordo anche l’angoscia che quel premio mi causò. Già mentre mi sentivo felice, cominciai a preoccuparmi del mio futuro di lettrice. Temevo di tradire la fiducia della maestra che mi aveva assegnato il premio. Avevo paura che l’anno seguente non sarei riuscita a leggere così tanto e altri mi avrebbero tolto il primato che mi ero guadagnata. Niente mi assicurava che avrei avuto la stessa voglia di leggere, la stessa necessità – cedimento che tra l’altro, con mia vergogna, puntualmente si verificò.
I premi, infatti – tutti – hanno questa caratteristica: premiano sempre un qualche traguardo già raggiunto. E la gioia che procurano ci mette poco ad affacciarsi sull’angoscia del dopo. “Ora sono stata brava, ce l’ho fatta, ma ce la farò ancora? Si riverificheranno le stesse fortunate circostanze che mi hanno permesso di fare ciò per cui ora sono premiata?”. Quest’ansia – ve lo confesso – la sento in ogni momento della vita. E tutto ciò che ho fatto con qualche successo mi ha resa felice ma, insieme, più angosciata del solito. Niente disgraziatamente ci è dato una volta per tutte, e qui devo dire con qualche solennità una cosa che è stranota ma che secondo me non si dice mai a sufficienza: il più incerto dei doni è il talento. Questo io che scrive ora c’è, ora non c’è, ora c’è e non c’è, ora non c’è e c’è. Niente dunque è più inaffidabile di quella porzione di me che produce scrittura. Se avessi puntato, come intendevo fare da giovane, tutta la mia vita su quella porzione, mi sarei ritrovata in un mare in tempesta, ora convinta di essere aggrappata a un tronco, ora scoprendomi stretta a un filo di paglia e vicina all’annegamento. Ho invece tracciato una linea netta tra i tasselli meno precari della mia vita – quelli che mi danno un’impressione di quotidiana stabilità – e l’io che scrive con i suoi capricci, le sue pigrizie, le sue lunghe assenze, le sue irruzioni tanto improvvise quanto esigenti. In quella forma sfuggente c’è di tutto, ma soprattutto smania di allineare parole e frasi.
Voi, gentili signori e gentili signore, premiate in questa occasione questo io, questa fuggevole funzione di autrice, così come si è manifestata e fissata sulla pagina. Oggi questo io c’è, qui davanti a voi: è la scia di scrittura che si è lasciato alle spalle, fino a queste righe. Non è detto che ci sarà domani, o che, se ci sarà, darà forma a opere all’altezza del premio che gli avete assegnato. Nell’accomiatarmi voglio rinnovarvi tutta la mia gratitudine perché avete scelto di premiare un gomitolo di parole scritte e non avete chiesto – non avete nemmeno lasciato intendere – che, per l’occasione, era necessaria la presenza di tutta la mia persona, felice e spaventata. È stato, da parte vostra, generoso. Del resto la coesione e coerenza e complessiva piacevolezza di quella persona – vi assicuro – è di gran lunga inferiore a quella dei libri che, nella sua funzione di autrice, lei ha scritto e pubblicato.