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 2021  settembre 25 Sabato calendario

Intervista di Teresa Forcades


Lei è una monaca benedettina che vive nel monastero di Monserrat ma ha anche la dispensa per poter portare la propria testimonianza intellettuale in giro per il mondo. Ora è a Venezia, domani sarà a Berlino e poi chissà.
A cinquantacinque anni Teresa Forcades è una donna piena di sorprese. Ci conoscemmo alcuni anni fa, quando mi raccontò come dopo un avvio promettentissimo da medico decise che nella vita avrebbe fatto altro e che alla cura del corpo avrebbe accompagnato quella dello spirito. Dice: «Fu una scelta impetuosa, ero stata ammessa ad Harvard ma sentii come una chiamata, una voce che esigeva altro da me e a quel punto lasciai che a guidarmi fosse più l’emozione che il calcolo». Teresa è anche una teologa, dove Dio è un vertice un po’ particolare per come di solito ce lo rappresentiamo. È un Dio rivisto alla luce del Cristo. Una presenza trinitaria che trasforma la verticalità in esperienza orizzontale. Non è importante allora il rapporto comando-obbedienza ma, semmai, la relazione tra entità diverse e tuttavia confrontabili. Non dobbiamo chiederci chi o cosa sia Dio, ma quale posto occupa nel mondo. In che modo egli è una figura che feconda la terra e al tempo stesso accoglie i suoi abitanti. “Teologia queer” l’ha definita la Forcades che ha appena pubblicato un libro su due pensatrici del Novecento: l’americana Dorothy Day e la francese Simone Weil ( Per amore della giustizia, Castelvecchi).
Che cosa avvicina queste due donne?
«Sono state entrambe ispirate dal Vangelo e la loro ricerca di verità ha coinciso con l’impegno sociale. Le accomuna la grande sensibilità al dolore altrui. Simone fece l’esperienza della guerra civile spagnola e poi si impegnò nel secondo conflitto mondiale; Dorothy visse la drammatica vicenda del terremoto di San Francisco.
Aveva nove anni nel 1906 quando ci fu la tragedia e quelle immagini le restarono impresse per tutta la vita».
Che strade percorsero?
«Diverse, certo, ma in qualche modo anche un po’ simili. La Day fondò Catholic Worker che oltre a essere una rivista molto importante fu anche una comunità impegnata nella difesa dei poveri e dei lavoratori. Anche la Weil entrò in contatto con le lotte operaie e sindacali e promosse a soli 16 anni una scuola di formazione popolare. Ma ebbe una vita più tormentata. E morì a soli 34 anni».
Si spense in un sanatorio non distante da Londra nel 1943. Che cosa l’ha tormentata?
«Credo che l’assoluto, con il quale si è sempre confrontata, l’abbia come bruciata. Solidarizzò con la sofferenza del mondo, ovunque fosse. Diffidava delle ideologie e dei partiti che promettevano soluzioni ma difendevano solo interessi di parte».
Che idea ebbe della democrazia?
«L’idea che ne ebbe nasceva dal fortissimo rifiuto dei totalitarismi. Pur militante della sinistra criticò con largo anticipo la dittatura staliniana».
Conobbe Trotskij, è vero?
«Trostkij era in esilio a Parigi, insieme alla moglie, quando lo invitò a casa dei suoi genitori. Ci furono discussioni molto accese nelle quali la giovane Weil definì la rivoluzione e il marxismo oppio per i popoli. Era consapevole che occorresse un cambiamento radicale dell’ordine socio economico del capitalismo, ma non nella direzione soffocante della grande struttura politica.
Trotskij cercò di convincerla che lo Stato sovietico era uno Stato operaio e Simone rispose che era uno stato alienante e totalitario. La sua idea di democrazia, ma ancor meglio di giustizia, era a favore degli esclusi, dei più deboli, degli sfruttati».
Si può dire che la Weil sostituì Marx con Gesù e la lettura del Capitale con i Vangeli?
«Criticava Marx ma ne ebbe anche ammirazione.
L’interesse per Cristo fu centrale nella sua vita. Le trasmise la forza per affrontare la sventura. Parola che ricorre nei suoi scritti. La presenza del Cristo non era tanto teologica, quanto legata all’impegno concreto su questa terra, anche quando siamo inconsapevoli del suo nome».
Si può agire nel nome di Dio non avendo nessuna certezza della sua esistenza?
«Sembra un paradosso. Ma attraverso il mondo degli esclusi sia Dorothy che Simone scoprivano Dio».
Cosa rappresentano per noi oggi queste due figure?
«Non dobbiamo né possiamo essere come loro, ma ispirarci ad esse sì».
Ci si può avvicinare come a una testimonianza del pensiero femminile?
«La Weil avrebbe rifiutato questa identificazione. Parlò del carattere a-personale della verità, per cui non scriveva mai “io penso”, “io dico”. Per lei era una forma di sincera umiltà rinunciare ad essere protagonista della vita. Una posizione che l’avvicinò al pensiero degli stoici.
Abbandonare la propria individualità, anche di donna, fu il suo gesto più prossimo alla mistica».
Se non fosse stata donna il suo pensiero sarebbe stato diverso?
«Essere donna nel mondo è fare esperienza diversa del mondo. Ma non posso dire se il suo fosse un pensiero femminile».
C’è differenza?
«Un paio di anni fa ho creato una scuola monastica ispirata alle madri del deserto, non ai padri. Presi in considerazione la vita di Sincletica, una donna di Alessandria d’Egitto che visse intorno al quarto secolo e che passò lungo tempo nel deserto. Ci sono rimasti i suoi Detti, come quelli di Sara o di Teodora, che circolarono nei centri monastici egiziani. Sono raccolte di scritti in cui queste madri ci parlano dell’esperienza del dolore e della gioia. Non so se il loro fosse un pensiero femminile. Ma erano donne, erano le madri del deserto».
Questa scuola che hai fondato che finalità si prefigge?
«Imparare a parlare di ciò che amiamo o che ci fa soffrire».
Qualcosa di molto personale?
«Non necessariamente. Parto dalla considerazione che se ciò di cui parli ha valore per te, allora può averlo anche per me. È come se tu possedessi una “perla” e quella perla fa vibrare le parole del racconto».
Se non l’hai?
«Allora è difficile che funzioni. Ricordo di aver fatto una lezione di teologia sull’amore e la mia “perla” era un verso del Cantico dei Cantici che dice: “distogli da me i tuoi occhi perché mi sconvolgi”. Chi sconvolge: Dio, l’amato, chi? E in che relazione stanno? Per la tradizione monastica conoscenza e vita stanno insieme. E poi c’è il silenzio che scende alla fine della lezione».
Perché?
«La nostra cultura è prevalentemente esteriore. Portarla al proprio interno richiede un passaggio al silenzio».
È così importante il silenzio?
«È più facile avvicinarsi a Dio con il silenzio che non attraverso i concetti. Il silenzio è una forma di ascolto, uno stile dell’esistenza come insegna la vita monastica. Il silenzio mette in contatto con la propria profondità umana».
La tua vita monastica ha comportato rinunce, immagino.
«Rinunce, certo. Ma soprattutto smarrimento e gioia.
Sono catalana e fui destinata al convento di Montserrat, nelle alture sopra Barcellona. All’inizio sentivo che la preghiera accompagnava il mio percorso da novizia. Poi subentrò la noia e la sensazione che quella scelta così tanto desiderata non fosse davvero quella giusta».
Non eri più così certa?
«Fu come inoltrarmi in un territorio impervio e sconosciuto. Sapevo però che dovevo interrogare il mio cuore per risolvere i dubbi. La madre superiora mi invitò a riflettere e a non fare scelte di cui mi sarei potuta pentire.
Mi suggerì di tornare alla vita esterna e vedere cosa sarebbe accaduto».
E che accadde?
«Mi innamorai di un giovane medico e fu come un mettermi alla prova. Dovevo capire quale direzione avrebbero preso i miei sentimenti. E alla fine compresi che cosa davvero volevo. Tornai al convento sapendo che quella era la scelta che avevo sempre desiderato».
Il tema del desiderio occupa una parte rilevante nella tua riflessione teologica.
«Bisogna desiderare Dio perché egli esprima il suo sì e venga nel mondo. Ma occorre creare spazio nel mondo affinché lo si possa ricevere. È la forma più intensa dell’amore».
Spiegati meglio.
«Percepisco che qualcuno mi ama quando sento che nella relazione, accanto a quella persona, lo spazio attorno a me si amplia. Questo spazio è la migliore definizione dell’amore».
Tu hai più volte parlato di una “teologia queer” e sembra quasi una provocazione.
«In che senso?».
“Queer” in origine indicava qualcosa di strano, di bizzarro e veniva spesso usato per indicare la condizione omosessuale.
«Nel campo del significato preferirei parlare di fluidità e di rottura della concezione binaria della sessualità. Il maschile e il femminile non sono categorie essenzialistiche, fisse e durevoli per sempre. L’identità maschile e femminile è sempre in discussione».
Incerta?
«No, è un’identità dinamica quella a cui penso. Queer significa dunque uscire dalla logica binaria maschile-femminile, retaggio della cultura patriarcale, per entrare in una prospettiva in cui tutti i soggetti sono in gioco senza che uno strumentalizzi o domini sull’altro, senza che la sessualità sia solo il luogo della procreazione e non anche quello della comunicazione e dell’interazione. Paolo nella Lettera ai Galati dice che nel Cristo è superata l’opposizione tra maschile e femminile».
Non ti viene il sospetto che alla fine sia tutto molto suggestivo ma anche molto astratto?
«Al contrario, è solo nella prassi che verifichiamo i limiti di una certa teologia tradizionale. Non potrei immaginare una teologia che non sia calata nell’esperienza. È la teoria che deve adattarsi all’esperienza e non il contrario. In fondo è la regola di San Benedetto».
Ora et labora?
«La preghiera non basta se non la si accompagna con il lavoro, con il confronto e l’esperienza. Ci deve essere sempre un dialogo tra la vita e il pensiero. Ed è stata questa convinzione a spingermi a occuparmi di Dorothy Day e Simone Weil. Era importante che intrecciassi le loro esistenze, pur così diverse».
Proprio Simone Weil denunciò seri problemi con la propria sessualità.
«È vero, temeva che la sessualità le avrebbe fatto perdere il controllo di sé, temeva che l’altro si aspettasse cose che non avrebbe potuto offrire. Oltretutto, c’era in lei un’avversione al contatto fisico, una fobia che sviluppò durante l’infanzia e che la spinse a mantenere a distanza sia fisicamente che sentimentalmente gli uomini».
Una volta si firmò “Simon”.
Se è per questo vestiva spesso come un ragazzo di strada.
Ma era anche per lei un modo di annullare le distanze tra i generi. Mi fai venire in mente che mia madre voleva chiamarmi “Ramon”».
Ramon?
«Sì, desiderava avere un figlio maschio e nella sua testa un nome così forse avrebbe cambiato un genere».
In quel desiderio materno c’era sia pure involontariamente un pensiero “queer”.
«Io stessa da piccola avevo deciso di portare capelli corti e di essere un bambino. I miei compagni di giochi erano soprattutto ragazzi».
Ti ha mai messo in imbarazzo questa decisione?
«No, semmai mi ha addolorato rendermi conto di quanto essere donna fosse un destino legato a una minore libertà personale e a minori opportunità nella vita».
Paradossalmente queste opportunità le hai trovate nel luogo forse meno prevedibile.
«Se ti riferisci al convento penso che sia lo spazio in cui la libertà ha trovato la sua realizzazione. Libertà come pensiero, come preghiera e azione. Ho imparato che la nostra realizzazione umana non è soggetta a categorie di alcun genere. Ho imparato a riconoscere il nostro carattere di pezzi unici. La nostra originalità senza la quale la libertà non potrebbe neppure pensarsi».