Robinson, 25 settembre 2021
Intervista a Luciano Canfora
Può esserci una dose di azzardo nell’interpellare sul complottismo, malattia della sospettosità contemporanea, uno degli studiosi che dal V secolo avanti Cristo a oggi hanno più investigato su cospirazioni e complotti. «Devo forse rimettere in discussione tutto il mio lavoro da storico?», ironizza Luciano Canfora, sapientissimo filologo classico provvisto di quella dote comune a molti maestri che è il senso dell’umorismo. A un colpo di Stato nella Grecia antica ha appena dedicato il suo nuovo saggio, uscito in questi giorni dal Mulino, nel quale ipotizza il coinvolgimento di Tucidide nella rivoluzione oligarchico radicale del 411 a.C. contro la democrazia ( Tucidide e il colpo di Stato).
Che i complotti facciano parte della storia è verità difficilmente opinabile. Quel che oggi pare pericolosamente in crescita è l’ossessione patologica, un’eccitata predisposizione che porta a vederli là dove non ci sono, tra satanismi e previsioni fantascientifiche. «A me complottismo sembra un termine goliardico, poco pertinente», obietta il professore con il suo stile affilato.
Quando si comincia in questo modo con Luciano Canfora, vale sempre la pena di proseguire.
Perché professore è una parola goliardica?
«Perché riduce una questione complessa a un giochino tra esaltati, senza considerare la stratificazione profonda di pregiudizi e stereotipi che vengono da molto lontano. Prendiamo ad esempio il piano Kalergi che gettava un grido d’allarme sulla razza bianca in pericolo. Ma questo è un atteggiamento mentale perverso, figlio d’una cultura radicata nel cuore dell’Europa sin dal XIX secolo. Vogliamo parlare del conte de Gobineau e del suo Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane?».
Ora ci arriviamo. Prima però le chiedo perché questo che lei non vuole chiamare cospirazionismo ma è comunque l’inclinazione a vedere disegni oscuri e perfidi ovunque sia cresciuto enormemente in questi due decenni del XXI secolo.
«Ma lei ne è sicura? Io credo che questa inclinazione sia sempre esistita, dall’antichità ai nostri giorni. Si tratta di fenomeni culturalmente irrilevanti che oggi conquistano più di prima lo spazio pubblico. La sensazione che vi sia una recrudescenza d’una sospettosità di massa può derivare dal fatto che siamo in presenza di un’ossessiva campagna vaccinale che provoca una reazione eguale e contraria. E questo conflitto è uno dei temi prediletti di giornali e tv».
La campagna s’è resa necessaria, vista la resistenza al vaccino di alcuni milioni di italiani.
«Non discuto la finalità positiva, ma resta il bombardamento quotidiano. E la gente reagisce immaginando le cose più assurde come l’iniezione di microchip sotto pelle per renderti docile ai disegni criminali dai Big Pharma. Devo anche aggiungere che il comportamento delle grandi case farmaceutiche non è stato tra i più limpidi. L’appello di papa Francesco a rendere il vaccino gratuito è caduto nel silenzio più assordante. E il caso limite si è raggiunto quando la signora Emer Cooke, dopo una vita nell’industria farmaceutica, si è ritrovata a sindacare sulla qualità dei vaccini in veste di direttrice esecutiva dell’Ema: il giudicato che diventa giudice. È comprensibile che, in una fase di angoscia collettiva, ne sia scaturito un sentimento di sfiducia profonda. Il salto nella stupidità è a un passo. Ma ha senso prendersela con il povero diavolo che urla sui social?».
Non si tratta di stigmatizzare, ma di capire cosa succede.
«Questo complottismo, se proprio tiene a questa parola, è la forma ingenua di un meccanismo mentale che è partito molto presto e da molto in alto. Il primo a sospettare d’un complotto è stato Trump, allora presidente degli Stati Uniti d’America: fu lui a sostenere che il virus era stato diabolicamente creato in un laboratorio cinese. Dice un proverbio siciliano in forma di domanda: è più stupido Carnevale o chi lo segue?
Naturalmente quelli che gli vanno dietro. Ma l’avvio è stato tutto politico e, se posso aggiungere, scandaloso».
Si può stabilire una correlazione nella storia tra il fiorire di tesi complottiste e i momenti di crisi, segnati da maggior angoscia?
«No. Si tratta di meccanismi mentali ininterrotti che affondano le proprie radici molto in là nel tempo. Alla fine del IV secolo avanti Cristo, ad Atene, c’era la tendenza a vedere ovunque un complotto oligarchico contro la democrazia: inclinazione sbeffeggiata da Demostene in una delle sue orazioni. Ma mi preme mettere in chiaro una cosa, altrimenti è difficile intendersi. Quello che lei chiama complottismo è l’esito aberrante d’un atteggiamento che è alla base di ogni indagine, in qualsiasi campo. Anassagora diceva che i fenomeni sono l’indizio delle cose che non si vedono. La vera storia è quella segreta, scrisse il grande storico Ronald Syme. Uno può credere che la Grande Guerra sia scoppiata per l’attentato di Sarajevo? Sarebbe un’ingenuità. Le guerre nascono sempre per ragioni profonde e inconfessate».
Questo è indiscutibile. Ma un conto è investigare sul disegno segreto nella storia, un altro immaginare complotti là dove non esistono: in qualche caso per legittimare finalità criminali. Quando storicamente si sono manifestati la prima volta complottismi di questa natura?
«Le pulsioni di tipo razzistico si sono sempre ammantate di teorie complottiste, fondate sul sospetto che le “razze” ritenute inferiori ci volessero aggredire.
Bisogna risalire alla fine del XV secolo, quando gli europei arrivarono nell’America Latina. Ci si domandava: ma questi hanno l’anima? E ammazzarli non era un problema. Soprattutto nell’Ottocento sono fiorite teorie parascientifiche che hanno sorretto l’idea del complotto contro la razza bianca: il dottor Mengele ha rappresentato il punto di arrivo di studi aberranti cominciati nel secolo precedente. Prima ho citato de Gobineau, uno dei primi fautori del razzismo pseudoscientifico. Il colonialismo è stata la risposta preventiva al sospetto che questi popoli inferiori potessero metterci in difficoltà. Così siamo andati noi a casa loro per portare la civiltà. È da lì che oggi discende il sentimento di superiorità e di sospetto verso le orde africane che invadono l’Europa».
I complottismi possono cambiare il corso della storia?
«I pregiudizi hanno sempre alimentato le guerre. Il mondo romano ha forgiato l’immagine dei greci come lestofanti e guerrieri incapaci, un ritratto che abbiamo poi esteso ai levantini, liquidati come malefici e infingardi. Ballando tra i secoli, non avremmo che da scegliere nelle guerre del XIX secolo tra i preconcetti dei tedeschi contro i francesi e viceversa. Lo stereotipo antisemita è stato quello dagli esiti più feroci».
L’Olocausto fu preceduto da “I protocolli dei savi di Sion”, il falso sui cui si fonda il complottismo antisemita contemporaneo.
«Quel falso sbucò dall’orrendo terreno di coltura di fine Ottocento di cui abbiamo parlato prima, mentre le origini dell’antisemitismo sono antichissime. Il geografo di età augustea Strabone scrisse a proposito degli ebrei residenti fuori della Palestina: li trovi ovunque, e ovunque vogliono prendere il comando; e spesso ce la fanno. Una frase aberrante, quella di Strabone, la cui fonte era probabilmente Posidonio.
Come ho cercato di dire ne Il tesoro degli ebrei, uscito di recente da Laterza, il pregiudizio antisemita risale molto in là nel tempo».
La radice antichissima è sufficiente a spiegare la sua resistenza nei secoli? Lo ritroviamo ancora in tante delle teorie complottiste di oggi.
«La Chiesa cristiana ha dato il suo contributo in questo senso. Quando al tempo di Teodosio il Grande – IV secolo dopo Cristo – dei monaci fanatici bruciarono una sinagoga in riva all’Eufrate, l’imperatore ordinò che fosse ricostruita. Ma il vescovo di Milano Ambrogio, tra i più potenti dell’Occidente, lo minacciò con una lettera di inaudita violenza: pentiti immediatamente, sei peggio di Giuliano l’Apostata! L’antisemitismo è stato un tratto comune ai cattolici e ai luterani. Ed essendo la cristianità un architrave della modernità, l’invadenza di questa avversione è stata fortissima. C’è voluto il Concilio Vaticano II, alla metà degli anni Sessanta del Novecento, per eliminare l’insulto agli ebrei deicidi».
La storiografia è riuscita ad arginare le teorie cospirazioniste? O ci sono casi in cui ne è stata complice?
«Non esiste la Signora Storiografia. Esistono storici bravi e storici creduloni, geniali e ignoranti. Mi viene da dire che è una disciplina, non ha il potere di condizionare l’opinione delle masse. Le insidie sono tante e gli studiosi cercano di arginarle. Nella Francia rivoluzionaria Bertrand Barère era un estremista antibritannico che richiedeva a gran voce l’esecuzione capitale dei prigionieri inglesi, poi s’è scoperto che era un homme de Londres, come ci racconta Olivier Blanc in un bel libro. E nella storia europea più recente uno dei principali collaboratori di Walesa era un agente di Jaruzelsky, mentre l’ombra di Willy Brandt, Günter Guillaume, era una spia della Stasi. Tra cospirazioni vere e cospirazioni inventate, gli storici fanno quello che possono».
Oggi la storia sembra ancora più manipolabile. In “La storia falsa”, uscito dieci anni da Rizzoli, lei sostiene che la lettera è il genere in assoluto più falsificabile. Le mail accrescono questo rischio?
«Certo. La produzione autografa è più protetta rispetto a un testo scritto al computer, molto più mobile ed esposto a ripetuti interventi. Un ramo della filologia morirà – pensi agli studi sulle varianti di Gianfranco Contini. E sarà sempre più difficile smascherare i falsi».