La Stampa, 25 settembre 2021
Intervista a Brian Selznick
Brian Selznick è uno degli autori più interessanti e originali apparsi negli ultimi anni, e uso il termine autore, anziché scrittore, per enfatizzare sia il tratto immediatamente riconoscibile della sua personalità artistica che la difficoltà a racchiuderlo in un’unica categoria: è infatti un narratore, un disegnatore e anche un marionettista. Originario di East Brunskick, nel New Jersey, e pronipote di David O’Selznick, dopo la laurea presso la Rhode Island School of Design ha lavorato per tre anni nella libreria per ragazzi Eeyore, realizzando a 25 anni The Houdini Box, pubblicato da Knopf. In quel libro, nel quale raccontava l’incontro tra un giovane e il suo idolo Houdini, sono presenti tutte i temi che riproporrà nelle opere successive: la forza catartica dell’arte, l’energia liberatoria della fantasia, il fascino per personaggi marginalizzati in virtù della loro genialità, e l’anelito di calore, spesso struggente, che riscalda dal dolore dell’esistenza. Il tutto raccontato con un tono che riesce a essere nello stesso tempo leggero e profondo, rendendo ogni suo libro apprezzabile a qualunque età. Il successo internazionale è arrivato con La Straordinaria invenzione di Hugo Cabret, adattato sullo schermo da Martin Scorsese, quindi La stanza delle meraviglie, diretto al cinema da Todd Haynes. In questi giorni è uscito negli Stati Uniti Kaleidoscope, definito dal New York Times «un capolavoro», che ne conferma l’originalità e l’alta qualità del talento, grazie al quale riesce a fondere mirabilmente l’ironia al dolore, la speranza e l’incanto al senso di fallacia e di perdita. Il libro è composto da 24 racconti collegati tra loro, raccontati da un narratore di 13 anni innamorato del protagonista, James, un giovane che combatte una guerra contro il sole per 500 anni e poi diventa re della luna. In questo mondo meraviglioso e fantastico, James combatte con tutte le proprie forze per assicurare all’universo la possibilità di sognare. «Senza i sogni non esiste la vita – mi dice nel suo appartamento di Brooklyn, dove campeggia un teatro di marionette – ed è questo, in ultima analisi, quello che ho cercato di dire con questo libro, anche se sono molto attento a non cadere nella trappola del messaggio».
È vero che ha scritto il libro come reazione al lockdown?
«Ho iniziato una prima versione cinque anni fa, ed era un romanzo nello stile di Hugo, ambientato in Cornovaglia e ispirato alle atmosfere di Rebecca di Daphne de Maurier. Continuavo a ritornarci ma vedevo che il plot non funzionava, finché ho buttato tutto tranne i passaggi che mi convincevano. Nel frattempo è scoppiata la pandemia e sembrava che il mondo stesse crollando, e ho cominciato a chiedermi come andare avanti e cosa imparare da questa tragedia. Partendo da quel poco che avevo salvato ho notato che c’erano delle immagini ripetute: farfalle, chiavi, mele, fuochi, e ogni volta che mi apparivano sembravano diverse, come in un caleidoscopio. Ho cominciato a scrivere alcune storie in prima persona, come in Rebecca, e ho capito che nel personaggio del ragazzo c’era molto di me, ma anche di mio marito David. Le storie hanno personaggi ricorrenti, ma sono ambientate in un tempo di 2000 anni, e raccontano i diversi aspetti di una relazione e il tentativo di comprendere la propria identità».
Lei ha sempre identificato in Maurice Sendak la sua fonte d’ispirazione: è ancora così?
«Assolutamente si, e uno dei racconti lo vede per protagonista: nei disegni che accompagnano la storia si vede anche il suo salotto. Nel mio mondo Sendak è paragonabile a Mozart, e ogni volta che mi imbatto nelle sue opere mi chiedo se sarò mai alla sua altezza».
Lei mescola costantemente elementi mitologici ad altri che provengono dalla religione, come i giganti e gli angeli.
«I racconti di Kaleidoscope, 24 come le ore del giorno, si interrogano su quale sia il senso ultimo dell’esistenza, e quindi inevitabilmente affrontano sia i libri sacri che i miti. Mi ha sempre colpito una leggenda della Cornovaglia di un bambino che diventa amico di un gigante, come anche il racconto del Giardino dell’Eden: ammetto che la Bibbia è stato una lettura recente, ed è stata una rivelazione».
Quanto ha influenzato la scrittura la sua esperienza di marionettista?
«Quello che amo del teatro di marionette è che si basa su una tacita alleanza con il pubblico, specie quando il marionettista è del tutto evidente: è un modo di fare narrazione chiedendo la fiducia dell’interlocutore».
Ritiene di essere un disegnatore che scrive libri o un narratore che li illustra?
«I bambini sono incoraggiati a scegliere una sola cosa, e ho pensato per molti anni che anch’io ne avrei fatta una, finché un giorno, andando a Broadway ho letto nella biografia della scenografa che scriveva libri di fantascienza, e ho scoperto che molti artisti fanno tante cose diverse: io mi ritengo un narratore che racconta la sua storia in maniera differente con i disegni le parole e le marionette. E in questo periodo mi sto cimentando come librettista: Hugo sta per diventare un musical».
Gli adattamenti dai suoi film hanno dato qualcosa ai suoi libri che pensava non ci fosse?
«Io ritenevo che non fosse possibile filmare Hugo, un testo di 600 pagine che poi diviene parte della storia che racconta. Ma Scorsese e lo sceneggiatore John Logan hanno rovesciato il mio intento pur rimanendo fedeli allo spirito di quello che avevo scritto, e lo hanno trasformato nella celebrazione del cinema. Gli artisti autentici ti danno l’impressione che il medium che utilizzano sia quello per cui l’opera è nata. Ho avuto una sensazione simile anche con Todd Haynes, e i suoi meravigliosi attori, che mi hanno fatto credere che incontravo quei personaggi per la prima volta». —