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 2021  marzo 28 Domenica calendario

Intervista ad Alec Ross - su "I furiosi anni Venti. La guerra fra Stati, aziende e persone per un nuovo contratto sociale" (Feltrinelli)

Un mondo all’insegna della code war, la guerra dei codici informatici. Con l’intelligenza artificiale ancora più pervasiva e la lotta al cambiamento climatico che diventerà una «chiamata alle armi» obbligatoria. Prima di tutto però «serve riscrivere il contratto sociale tra governi, aziende e cittadini». Dopo avere proposto su «la Lettura» #485, in occasione della Milano Digital Week, un manifesto per l’Italia contro la crisi accelerata dal Covid, Alec Ross allarga il campo.

Tra previsioni, speranze e proposte su che cosa servirebbe fare, l’esperto di politiche tecnologiche che lavorò con Barack Obama e Hillary Clinton individua alcune questioni chiave del decennio che abbiamo iniziato a percorrere. I furiosi anni Venti. Aziende, Stati, cittadini e la battaglia per il nostro futuro — The Raging 2020s nell’originale inglese — è proprio il titolo del saggio del consulente e imprenditore in uscita a settembre, in Italia da Feltrinelli. Ross, americano con nonni emigrati dall’Abruzzo, come racconta ne Il nostro futuro (Feltrinelli, 2016), parla via Zoom da Bologna, dove insegna alla Business School dell’Alma Mater.

Il nuovo saggio evoca i «ruggenti anni Venti» del Novecento. Quelli che stiamo vivendo oggi, nel XXI secolo, lei li definisce «arrabbiati», «furiosi».

«I ruggenti anni Venti produssero negli Stati Uniti una spettacolare creazione di ricchezza e di cultura, ma finirono in modo orribile, con una gravissima crisi finanziaria dalle conseguenze mondiali. Gli attuali anni Venti sono iniziati male, con il Covid e le difficoltà correlate. Speriamo che si chiudano ruggenti. Già un secolo fa tuttavia, a dispetto di quell’inizio che sembrava promettente, si era rotto il contratto sociale, cioè l’insieme di regole scritte e non scritte in base a cui governi, cittadini e aziende si rapportano e fissano limiti e responsabilità. Dopo il tracollo innescatosi nel 1929, gli Stati Uniti con Franklin Delano Roosevelt, presidente dal 1933, riscrissero quel “patto”. Ecco, credo che il contratto sociale si sia rotto anche oggi: è questo che provoca la rabbia dei cittadini, gli anni furiosi».

Quali le cause allora e adesso?

«Negli anni Venti del Novecento ci fu una speculazione dilagante che portò al collasso finanziario. Negli Stati Uniti vigeva il laissez faire. I repubblicani conservatori consentirono che fosse il business a guidare il Paese. È molto simile a quello che accade oggi: siamo governati più dalle aziende che dalle nazioni. Allora ci furono due esiti diversi. Negli Usa, appunto, Roosevelt, che inaugurò il New Deal e creò una grande classe media; in Germania e Italia, Hitler e Mussolini. Negli Usa abbiamo appena avuto Donald Trump: in un certo senso una sperimentazione di quella stessa ultradestra».

Di chi è oggi la responsabilità?

«Non incolpo le grandi aziende. Anche se è bene tenere presente che compagnie tecnologiche come Amazon, Apple, Microsoft, Google, Alibaba, Huawei, sono potenti quanto gli Stati. Io credo nel capitalismo e nel libero mercato, ma ci deve essere equilibrio. Sotto Trump il potere del capitale è diventato maggiore di quello del lavoro, così assistiamo alla crescita delle diseguaglianze e alla stagnazione dei salari. Io vengo dalla working class della West Virginia, poi mi sono arricchito con la mia professione. Ma ora, anche se pago tutte le tasse, rispetto a quanto guadagno ne pago comunque meno, ad esempio, dei ricercatori che hanno lavorato con me al nuovo libro. Allora monta la rabbia, i cittadini vanno verso l’ultradestra o l’ultrasinistra e rischiamo di vedere figure del tipo Hitler e Trump».

Ce ne sono già?

«Viktor Orbán in Ungheria è un esempio. Anche Matteo Salvini appartiene a quel mondo, ma non è abbastanza astuto da guidarlo, gioca a dama, non a scacchi. Poi c’è sempre chi spunta dal nulla».

Che cosa si può fare?

«Nel nuovo saggio un ampio focus sarà dedicato alla differenza tra il capitalismo degli shareholder, quello in cui tutto ruota attorno agli azionisti e che è purtroppo il modello dominante, e il capitalismo degli stakeholder, cioè quello in cui conta anche chi o cosa è direttamente o indirettamente coinvolto in un progetto o in un’azienda, come i lavoratori, i clienti, l’ambiente. L’Italia esprime questo modello più di altri, perché ci sono molte ditte familiari che rispondono al territorio e ai dipendenti. Un’altra idea di cui sono sostenitore è una tassa minima globale per le multinazionali. Il 99,9% dei cittadini pagherebbe meno se chiudessimo paradisi fiscali e società offshore».

Le grandi compagnie tecnologiche influenzano anche altri ambiti, come l’informazione. Vede la possibilità di una regolamentazione?

«La Cina lo fa già, ma con metodi autoritari per noi non condivisibili, basti pensare al ridimensionamento di Jack Ma, il fondatore di Alibaba. Ma in generale la risposta è sì, anche se le compagnie non sono tutte uguali e andrebbero gestite individualmente. La via, a mio avviso, è disciplinarle finanziariamente. Quindi andrebbero multate pesantemente se, ad esempio, diffondono fake news. Poi insisto sulle tasse: bisogna che le paghino».

L’Europa riuscirà a dire la sua?

«Ora ci sono due modelli che riguardano governance, crescita e tecnologia: cinese e americano. Il primo è fondato appunto sull’autoritarismo statale, il secondo è quello dei “ragazzi della California”. Ma c’è differenza fra intelligenza e saggezza, e questi giovani ingegneri sono

spesso intelligenti ma non saggi. Perciò serve l’Europa, e non solo come arbitro».

Anche il «cloud computing», tecnologia decisiva per elaborare e archiviare dati a costi ridotti, in rete, è finora in mano americana: Amazon, Microsoft e Google sono i principali fornitori, seguiti dai cinesi. Con l’Europa che, in ritardo, inizia a muoversi.

«È ridicolo che l’Europa non sia già in campo! Può benissimo farlo, ma deve ritrovare coraggio, leadership e imprenditorialità. Competenze e talenti ci sono».

In questo momento appare in difficoltà anche nella campagna vaccinale.

«A Bruxelles sembrano diventati burocrati spaventati. Ma anche gli Stati che hanno sospeso AstraZeneca dovrebbero vergognarsi: è stata una decisione fondata sulla paura, non sulla scienza. So di essere duro, ma torniamo ai rischi: se ti percepiscono debole, i cittadini si affidano all’uomo forte».

Che peso avrà la tecnologia nei rapporti internazionali dei prossimi anni?

«Non si parla più di cold war, guerra fredda, ma di code war, guerra di codici informatici. Il mondo sarà più multipolare rispetto alla contrapposizione America-Urss, ma Stati Uniti e Cina sono finora i principali contendenti. Una guerra nuova, inoltre, non regolata da trattati, si combatte a colpi di cyber-attacchi: un livello basso ma costante di conflitto. Russia, e ancora Cina e Usa, con Israele, Iran, Arabia Saudita, i più coinvolti. Temo che in pochi anni vedremo persone morire per la risposta a un attacco informatico».

Tra i settori in crescita, di cui già parlava ne «Il nostro futuro», c’è l’intelligenza artificiale. Dove arriverà?

«Le nostre vite ne sono già influenzate. Negli Stati Uniti un matrimonio su tre è iniziato con un incontro online combinato da un algoritmo. Forse perderemo in serendipità, con meno occasioni di scoperte impreviste. Ma non è tutto negativo. Pensiamo a Spotify: questa piattaforma per la musica mi ha introdotto a tante piccole band che non avrei mai conosciuto. Ed è meraviglioso che ora siano pagate perché noi la ascoltiamo. Detto questo, in un mondo in cui robotica e intelligenza artificiale saranno sempre più potenti, è più che mai importante preservare il nostro umanesimo».

Robot e intelligenza artificiale potrebbero diventare pericolosi?

«Solo se glielo permetteremo. Con Obama un grande dibattito fu su quanto potere dare all’intelligenza artificiale nella guerra. Sono un ottimista, dico sempre che solo gli ottimisti cambiano il mondo, ma in questo ambito lo sono meno. Sono coinvolte nazioni diverse e ognuna può decidere per conto suo. Putin ha detto che “il Paese che padroneggerà l’intelligenza artificiale comanderà il mondo”. E non credo che, in certi contesti, la Russia si regolerebbe come l’Italia...».

Sfida cruciale è la lotta al cambiamento climatico. Ne parlerà nel libro?

«Sì, molto. Nessun Paese o segmento sociale può fare da solo. I nodi su ambiente, economia, migrazioni, salute, richiedono interconnessione. Un patto, appunto, tra governo, cittadini, imprese: a lungo termine, nella stessa direzione».