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 2021  settembre 24 Venerdì calendario

Intervista a Carter Malkasian. Parla della guerra in Afghanistan

Gli Stati Uniti hanno esposto gli afghani a danni prolungati per difendere l’America da un altro attacco terroristico. I villaggi sono stati distrutti. Le famiglie sono scomparse. L’intervento ha svolto un lavoro nobile per le donne, l’istruzione e la libertà di parola. Ma quel bene deve essere soppesato con le decine di migliaia di uomini, donne e bambini che hanno perso la vita».
Partiti gli ultimi voli di evacuazione mentre i taleban sostituiscono le bandiere nazionali afghane con il vessillo bianco che riporta la shah?dah, (Testimonio che non c’è nessun dio, al di fuori di Dio e testimonio che Maometto è il profeta di Dio) è arrivato il momento dell’analisi degli errori. A mettere in fila i processi storici, economici e militari che hanno portato i taleban a una rapida, inarrestabile conquista del Paese, un libro che costituisce la prima storia completa della più lunga guerra americana: «The American War In Afghanistan». L’ha scritto Carter Malkasian, storico militare che ha prestato servizio come consigliere civile degli Stati Uniti in Afghanistan, ex consigliere politico del generale Joseph Dunford, il comandante delle forze statunitensi e alleate per tutta la missione, che divenne anche presidente dei capi di stato maggiore congiunti. Malkasian si chiede perché le potenze occidentali siano rimaste combattendo una guerra che avevano capito di non poter vincere e solleva un interrogativo inquietante: alla fine, l’intervento degli Stati Uniti in Afghanistan ha fatto più male che bene?
Per provare a rispondere a questa domanda abbiamo raggiunto Malkasian al telefono, a Washington.
Professor Malkasian, prima di tutto, quando e perché ha sentito l’urgenza di scrivere questo libro?
«Ho iniziato a scrivere nel 2015, la guerra andava avanti da oltre dieci anni, un tempo ragionevole per pensare di avere una prospettiva storica. Avevo lavorato a lungo, in Afghanistan, provando ad analizzare gli eventi e mi chiedevo come sarebbe andata a finire».
Quali sono secondo lei i processi storici che l’Occidente ha frainteso, male interpretato o, peggio, sottovalutato in Afghanistan?
«Devo confessarle che io stesso ho sottovalutato alcuni processi in Afghanistan. Stacchiamo il punto di osservazione e torniamo indietro nel tempo. Il Paese ha vissuto una guerra civile per oltre 40 anni. Dalla rivoluzione del 1978 e dopo l’intervento sovietico nessuno è riuscito a governare il Paese. L’unica forma di stabilità, sebbene oppressiva, è stata il regime talebano della seconda metà degli anni Novanta.
Dobbiamo riconoscere che il nostro intervento, nel 2001, ha determinato che la guerra civile continuasse e si aggravasse. Dunque, una delle cose che potremmo non aver capito dell’Afghanistan è che l’intervento straniero stesso – sia nella forma dell’intervento sovietico o di quello americano e della comunità internazionale – ha di fatto alimentato la guerra. Forse per un giusto motivo, perché ha portato più libertà agli afghani, forse ha dato anche una reale occasione alla democrazia per nascere, ma allo stesso tempo è stata una continuazione della guerra.
Non significa che l’intervento fosse sbagliato, significa però che avremmo dovuto essere più consapevoli che la violenza ha un costo e che questo costo, in Afghanistan, è stata altra instabilità».
Due domande speculari: perché gli Stati Uniti sono usciti dall’Afghanistan ora e perché sono rimasti così a lungo?
«Gli Stati Uniti sono andati in Afghanistan in reazione all’11 settembre, percependo una minaccia terroristica reale. Il presidente Bush era preoccupato dalla possibilità di nuovi attentati se non avessimo sconfitto Al Qaeda. La comunità internazionale nel suo insieme è stata in allarme per anni poi, nel tempo, la preoccupazione è scesa, un po’ per le sconfitte che ha subito il terrorismo – penso alla sconfitta militare dell’Isis, alla caduta delle tre autoproclamate capitali – e un po’ perché il mondo ha iniziato a doversi occupare di altri problemi. Gli Stati Uniti hanno spostato l’attenzione verso Russia e Cina, il mondo ha fronteggiato la crisi economica e infine è arrivata la pandemia.
E questo è il contesto degli ultimi anni ed è una ragione importante del perché ce ne siamo andati ora e non prima».
Gli Stati Uniti sono intervenuti in Afghanistan per una ragione legata alla sicurezza nazionale e non per una operazione di nation building come Biden ha piu’ volte ripetuto nei suoi recenti discorsi. Bisognava uscire prima o uscire meglio? E quale sarebbe stata una uscita migliore di questa?
«Le operazioni di nation building sono state raramente un obiettivo ufficiale della nostra missione in Afghanistan, lo erano solo informalmente. L’obiettivo chiaro era l’anti-terrorismo poi, certo, avevamo a cuore la nascita della democrazia in Afghanistan, il miglioramento della condizione femminile, l’istruzione per tutti – ragazzi e ragazze – la lotta alla corruzione. Ma erano dei passaggi, direi, secondari, a volte venivano menzionati nei discorsi dei presidenti ma più spesso no. C’era la forte convinzione che la democrazia fosse la strada giusta da percorrere ma non c’è mai stato un progetto solido ed esteso di nation building, anche questo è un errore da ammettere».
Molti afghani mi hanno detto che gli accordi di Doha hanno contribuito a dare alle persone una sensazione di una vittoria di fatto dei taleban e che – una volta firmati gli accordi che hanno escluso il governo ufficiale di Ashraf Ghani – non ci fosse piu’ una strada per le negoziazioni politiche intra afghane. È stato come dire, da parte degli americani: stiamo consegnando indietro il Paese ai taleban, e diamo loro un largo anticipo per organizzarsi prima del nostro ritiro. Qual è il suo giudizio sugli effetti degli accordi di Doha?
«Sono stato coinvolto in parte delle negoziazioni e non c’è dubbio che questa fosse una delle mie preoccupazioni. Mi chiedevo che impatto avrebbero avuto gli accordi di Doha sulle persone, se avrebbero fatto sì che i cittadini pensassero: è tutto finito. E oggi penso che effettivamente sia accaduto. Credo che avremmo dovuto essere più severi con i taleban, e pretendere che rispettassero gli accordi presi. E ritengo che le cose sarebbero state diverse se avessimo posto come reale condizione da rispettare un accordo politico intra afghano, forse i cittadini avrebbero percepito tutto questo non come un ritiro ma come un accordo politico che coinvolgeva il governo di Ghani per il loro bene. Devo ammettere, guardando a quanto accaduto, che un accordo più duro con i taleban avrebbe potuto portare a un esito differente».
Pensa che il ritiro incondizionato, unito al rafforzamento dell’ideologia talebana dopo la vittoria, possa rendere l’Afghanistan, in futuro, un nuovo paradiso per i combattenti stranieri, un enorme campo di addestramento per vecchi e nuovi fondamentalismi?
«Il rischio c’è. Può accadere che al Qaeda e altri gruppi estremisti crescano, fioriscano di nuovo in Afghanistan. E il successo dei taleban probabilmente li incoraggerà. Non penso che i taleban vogliano attacchi terroristici in altri Paesi, ma quanto siano in grado di impedirli è una questione molto piu’ ampia.
Detto questo, penso anche che gli Stati Uniti e la comunità internazionale debbano impegnarsi ad essere resilienti: se gli attentati terroristici avverranno non sarà probabilmente una catastrofe come quelle del passato. I Paesi occidentali devono attrezzarsi per affrontare le nuove forme che queste minacce prenderanno in futuro, affrontare i rischi e le minacce che assumeranno forme più sofisticate e imprevedibili. Gestirle internamente è meglio che combatterle su territorio straniero».
Spesso ho la sensazione che l’Occidente fatichi a comprendere le motivazioni ideologiche dei gruppi fondamentalisti. In un certo senso è stato così per al Qaeda e poi per l’Isis in Iraq, e lo stesso per i taleban in Afghanistan.
«I taleban avevano una battaglia da vincere più importante di quella militare, era la battaglia ideologica contro il nemico occupante. I taleban erano disposti a combattere e morire, dall’altra parte c’erano manipoli di soldati afghani che – sebbene addestrati dagli americani e dalla Nato – non erano motivati a morire in nome di un governo che giudicavano sempre meno legittimo e sempre piu’ corrotto.
Voglio dire che i taleban si sono presentati come combattenti per un progetto, il jihadismo nazionalista, hanno combattuto per l’Islam e come resistenza all’occupazione, due valori fondanti dell’identità afghana.
Se guardo al futuro dei taleban sono spaventato dalla possibilità di attentati kamikaze. Il gruppo all’inizio non faceva ricorso agli attacchi suicidi ma nel tempo li hanno legittimati, uccidere i civili è diventato, anche per loro, un sacrificio accettabile. Mi inquieta uno scenario in cui i taleban, che pure non hanno interesse a incoraggiare o sostenere attacchi in altri Paesi, possano in qualche modo tollerarli nel loro Paese».
La vittoria dei taleban è indiscussa ma fragile, hanno il Paese in mano ma hanno vinto in parte sul vuoto di fallimenti di altri – l’ex presidente Ashraf Ghani, che mancava di radicamento sociale – l’esercito corrotto o non motivato alla guerra.
Ora, senza più forze di occupazione, senza più nemici sul suolo afghano, è per i taleban il momento di tenere vivo il movimento politico.
Per la sua esperienza, su quali basi si terrà vivo il gruppo, e con quali obiettivi?
«Questa è la domanda chiave: quanto dureranno i taleban. La seconda è: saranno fragili o forti? Per capire cosa accadrà dobbiamo essere attenti alle difficoltà che incontreranno: avranno bisogno, come qualsiasi governo afghano, di molto supporto dall’esterno, assistenza economica, e dubito che riceveranno gli stessi fondi che ha ricevuto il precedente governo dalla comunità internazionale. La Cina potrebbe aiutarli, così come altri attori regionali, ma al momento sembra che questa assistenza sia comunque molto scarsa e sicuramente non sufficiente. Questo si tradurrà in un ulteriore impoverimento della popolazione dunque malcontento e resistenza al regime. Dovranno contare sull’oppio per finanziarsi. L’hanno sempre fatto ma ora questi finanziamenti dovranno sopperire a quelli della comunità internazionale che non ci saranno più.
Quindi sono di fatto di fronte a un dilemma: restare ideologicamente coerenti alla narrativa del gruppo e contemporaneamente dover scendere a compromessi per ottenere aiuti esterni e fronteggiare la crisi umanitaria. Un dilemma che ricalca la divisione interna tra l’ala più negoziale e quella più radicale, gli Haqqani». Quale sarà la sintesi, secondo lei?
«In passato i taleban hanno avuto delle divisioni interne ma sono sempre riusciti a superarle, anche le fratture sfociate nella violenza. I vertici sono certamente in allarme per le divisioni interne e consapevoli che il rischio sia scivolare di nuovo in una guerra civile, come negli anni Novanta. E non vogliono, naturalmente, che questo accada. Quello che dobbiamo considerare è che nonostante le voci sulle divisioni e gli scontri tra i vari gruppi noi non sappiamo davvero cosa stia accadendo né quale sia la situazione nelle stanze in cui i taleban si stanno spartendo il potere. È difficile prevedere cosa accadrà ma se guardiamo al passato ci sono buoni motivi di credere che riusciranno a superare le divisioni per mantenere il potere».
Uno degli effetti della conquista del potere da parte dei taleban è la liberazione di molti prigionieri, sia taleban sia membri dell’Isis K.
Alcuni di questi ultimi si sono resi protagonisti degli ultimi attentati, quello all’aeroporto ma anche i più recenti a Jalalabad. Quale può essere il futuro dello scontro tra questi due movimenti che hanno obiettivi così diversi. Nazionale il primo, globale il secondo?
«Una possibilità è che i taleban riescano a cooptare un gran numero di loro membri. I taleban hanno vinto la guerra contro gli Usa, contro il governo afghano. Questo li mette in una posizione politica molto forte per convincere le persone a unirsi a loro. Dall’altro lato, una parte dello Stato Islamico sta già agendo perché non accada e forse il risultato è quello che abbiamo visto accadere a Jalalabad, nuovi attentati kamikaze.
Ci sono luoghi che non sono mai stati sotto il controllo talebano e dove invece lo Stato Islamico è presente e attivo, ma più combatterà più i taleban dovranno cercare di fermarli e sopprimere il loro movimento.
E in queste operazioni i taleban potrebbero avere il supporto di quei Paesi della regione che non vogliono che lo Stato Islamico cresca.
È difficile pensare che Isis-K possa costituire una seria minaccia per il governo dei taleban. Quello che è più probabile è che condurranno altri attacchi e che una parte dello Stato Islamico resterà in alcune zone di provincia tentando di raccogliere adepti». —