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 2021  settembre 24 Venerdì calendario

Intervista a Vittorio Sgarbi (parla di Pietro Antonio Magatti e di Codogno)

Vittorio Sgarbi, da quando il Covid ha colpito duramente la località, è di casa a Codogno. E cerca di promuoverne il patrimonio artistico. Lo farà anche domani, in compagnia di Andrea Ragosta, quando, nell’ambito della Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, presso il Vecchio Ospedale Soave presenterà (alle 18 e 30), con una lectio, una mini mostra intitolata: Pietro Antonio Magatti dalla cura del corpo alla cura dell’anima. L’iniziativa, nata grazie ad un bando regionale, che ha messo insieme alcuni comuni del Basso lodigiano tra cui Codogno, ha come punto di partenza l’idea di valorizzare l’opera di Magatti (1691-1767), presente a Codogno nella Chiesa di San Giorgio e di proprietà della Fondazione Opere Pie Riunite, che verrà posta a confronto con un altro Magatti conservato nella collezione Sgarbi Cavallini. Ed è prodromica ad una mostra più grande, che si terrà a fine autunno: in quel caso opere di Magatti dialogheranno con quelle di altri pittori lombardi e con quelle della grande scuola veneta del Settecento. Abbiamo parlato con Vittorio Sgarbi per farci raccontare perché è importante la riscoperta di questo pittore e perché è importante che parta da Codogno.
Tutto parte dalla Pala, opera di Pietro Antonio Magatti conservata a Codogno?
«A Codogno c’è un Magatti bellissimo. Con un Cristo molto scenografico che scende dalla croce e porge, perché la baci, la ferita che ha sul costato a san Pellegrino Laziosi. Il malato viene curato dal sangue di Cristo, è una taumaturgia psicologica come l’ho definita io, e quindi, siccome nella mia collezione ho un altro Magatti è nata l’idea di esporli assieme, e poi riflettendoci, dopo essere entrato anche in contatto con un collezionista locale, che ha una splendida raccolta di pittori veneti del Settecento è nata l’idea di mettere a confronto le opere di Magatti con quelle di altri pittori lombardi del Settecento e con quelli della scuola veneta. Questa sarà l’altra mostra, più grande, che faremo in autunno, a novembre, a cui questa è prodromica. Pittori veneti e lombardi a confronto potrebbe essere il titolo. Sicuramente Tiepolo e Magatti si conoscevano».
Magatti non è un pittore particolarmente noto al grande pubblico...
«Questa mostra e la lectio sono un’introduzione a Magatti, il contesto preciso dell’artista è quello che la gente vedrà nella seconda mostra. Purtroppo i pittori del Settecento lombardo, diversamente da quelli del Seicento che avendo come capofila Caravaggio sono stati raccontati bene – Longhi ha aperto, Testori ha continuato – sono negletti. Il Settecento veneto è stato divulgato bene, quello lombardo no. Canaletto, Tiepolo sono sempre stati sugli scudi, il Settecento romano è ben conosciuto, quello toscano in penombra. Gli artisti lombardi di quell’epoca li ha invece valorizzati solo la mia amica Rossana Bossaglia la quale se ne è occupata negli anni Ottanta con mostra a Palazzo Reale. Ma restano un continente misterioso».
Quali sono i grandi pittori del periodo?
«Il primo Magatti, il secondo Lanzani, il terzo e il quarto Ceruti – detto il Pitocchetto – e Fra Galgario: questi due erano già stati in parte valorizzati da Testori in una mostra sui pittori della realtà, gli altri sono rimasti in ombra, soprattutto per quanto riguarda la pittura sacra. Vanno misurati e confrontati con il Tiepolo che lavora anche a Milano, a palazzo Clerici, a palazzo Dugnani, a palazzo Archinto. Tiepolo occupa la scena milanese, i lombardi subiscono il suo peso ma dialogano con lui. Vediamo quanto Magatti prende da Tiepolo ma anche quanto gli dà. Il dialogo fra lombardi e veneti va tutto indagato, lo faremo in questa mostra».
I due Magatti di cui parlerai alla Milanesiana?
«Magatti è l’equivalente lombardo di Tiepolo, si dedica alla pittura religiosa, non dipinge la realtà come Ceruti coi suoi pitocchi, è un pittore ufficiale. Dipinge pale d’altare come quella di Codogno, sono pensate per portare verso la fede, diciamo che c’è in esse ancora una visione federiciana, borromaica, lavora dentro una cultura tutta legata alla civiltà cristiana. Non è fantasioso o bizzarro quanto Tiepolo ma incarna in pieno, anche per la cronologia della sua vita, il Settecento lombardo».
La sua presenza a Codogno?
«Era molto mobile in Lombardia, lì ottenne la committenza e fece un capolavoro. E in questo caso poi l’opera si attualizza, sembra fatta apposta per il Covid, visto il richiamo alla guarigione del malato. Il dipinto è tiepolesco ma con una gamma cromatica più cupa, tipica dei lombardi. Poi va detto che Magatti intercetta anche la scuola pittorica bolognese, perché è stato allievo di Giovan Gioseffo Dal Sole, altro bel pittore scenografico. Solo dopo i venticinque anni Magatti rientra in Lombardia e lavora a Merate e nel Varesotto. Il suo arrivo a Codogno invece è nel 1726. Poi a Milano incontrerà Tiepolo, che arriva in quegli anni».
Ci sarà anche un quadro della tua collezione
«Io ne ho due. Uno è un teatrale Cristo nell’orto con un angelo che arriva e gli fa festa. L’altro è una Madonna con bambino e san Francesco gocciante sangue. Molto drammatico, è il più lombardo. Questo secondo arriverà nella mostra di novembre. Il primo invece lo metterò a confronto domani con quello di Codogno».
Tu hai un rapporto particolare con Codogno...
«Sono stato nominato commissario straordinario per le arti a Codogno. Codogno è stata la prima località colpita dal virus e io mi sono battuto per riportarla alla vita. Questo senza sottovalutare il virus. Questo è stato anche frainteso, ma la mia posizione non è affatto no vax, si rifà semmai al modello spagnolo e svedese. Quindi quando a luglio sono andato a Codogno è iniziato il percorso che porta a questa lectio e a queste mostre».