la Repubblica, 23 settembre 2021
Sul "Gustavo III" di Giuseppe Verdi
Il Festival Verdi 2021 apre domani al Teatro Regio di Parma con una gran chicca: Gustavo III. È la versione originale di Un ballo in maschera, concepita per il debutto al Teatro Apollo di Roma prima che i cambiamenti imposti dalla censura papalina la trasformassero nell’opera che conosciamo. «Ma gli appassionati verdiani e chi ha fiducia nei progetti scientifici del Festival Verdi possono stare tranquilli», rassicura il direttore Roberto Abbado. «Ciò che ascolteranno è frutto di un’operazione filologicamente sorvegliata, di “inserimento” del testo integrale del primo libretto presentato dal compositore a Roma sulla partitura di Ballo in maschera nell’edizione critica a cura di Ilaria Narici». La musica è al 100% quella del Ballo e il testo originario calza a pennello. L’allestimento è l’eredità artistica di sir Graham Vick. Il regista inglese ci ha lavorato finché il Covid non lo ha portato via il 17 luglio, a 67 anni. A lui è dedicato l’intero Festival. Jacopo Spirei ha collaborato con lui più di vent’anni e il teatro gli ha chiesto di completare e portare in scena le idee del maestro. Anche per questo, riscoprire Gustavo III non è sterile filologia. È un pass per il backstage di Verdi, una visita guidata alla factory del suo processo creativo. La scena non è il New England del XVII secolo ma la Svezia di fine Settecento. E il protagonista non è il fittizio Riccardo governatore di Boston ma una figura simbolica della storia europea: Gustavo III, re di Svezia dal 1771. Stravagante e narciso, innovatore e massone, protettore delle arti e della cultura, sfacciatamente bisex, concentra le antinomie di un secolo in bilico fra assolutismo e Lumi. Gustavo viene assassinato durante una festa mascherata a corte il 29 marzo 1792 dal capitano Jacob Johan Anckarström (Anckastrom nell’opera, il Renato del Ballo) e dai suoi complici Claes Horn e Adolf Ribbing. Congiura di palazzo la motivazione ufficiale. Affari di letto quella mai chiarita, e probabilmente vera. Una vicenda troppo perfetta per non diventare opera. Eugène Scribe ne ricava nel 1833 un Gustave III, ou Le Bal masqué musicato da Daniel–François Auber. Anche Verdi nel 1857 se ne appassiona. La vuole portare in scena al San Carlo di Napoli, ma la censura borbonica si mette di traverso. Verdi per ripicca decide di farla a Roma, ma anche lì non c’è pace. Il 14 gennaio 1858 l’attentato di Felice Orsini a Napoleone III mette una pietra tombale su ogni allusione a teste coronate. Il travagliato Ballo in maschera va in scena il 17 febbraio 1859 nell’ambientazione da Lettera scarlatta, puritana in tutti i sensi. Congiure e libertini, danze e travisamenti, vaticini e cimiteri. Dentro c’è molto Don Giovanni e Rigoletto. Spirei: «Gustavo è un Don Giovanni che cresce. Uno dei rari tenori che in Verdi evolve come psicologia. Dal frivolo personaggio iniziale cambia con la “discesa agli inferi” nell’“orrido campo” e ne riemerge con una visione più adulta. È un uomo divorato dalla curiosità, guidato da uno spirito leggero ma che raggiunge la maturità nel legame con Amelia». È questa la maggior differenza con il Duca di Mantova di Rigoletto, immutabile nella sua cinica sventatezza. Ma se Gustavo III è così ricco e profondo, perché Verdi una volta fatta l’Italia e cadute le censure degli staterelli non ci rimette mano come con Macbeth e Boccanegra? «Lo spettacolo era fatto e funzionava - spiega Spirei - e Verdi aveva altri progetti cui teneva di più. Cambia il suo concetto verso il potere. Dopo due guerre d’indipendenza fallite e approcciandosi l’Unità, capisce che il cambiamento può venire solo da chi il potere lo detiene. Chi colpisce è Anckastrom, un uomo d’azione. E gli oppositori, i rivoluzionari idealisti delle sue prime opere ora sono ridotti a cattivi da commedia: i congiurati Ribbing e Dehorn sono trattati senza approfondimenti psicologici individuali, in una maniera rigida, quasi da opera buffa». L’ambientazione svedese toglie pure le castagne dal fuoco a un passo oggi messo all’indice dalla cancel culture. Quando il Ballo dice «S’appella Ulrica, dell’immondo sangue dei negri», in Gustavo III si canta in modo più neutro «S’appella Ulrica, la sibilla». Politically correct salvo, e le polemiche stanno a zero.