la Repubblica, 23 settembre 2021
In Giappone si prega e ci si inchina per i nuovi edifici
Camminare per le strade, anche le più spoglie e derelitte, in Giappone può riservare sorprese. Tokyo si trasforma a ogni piè sospinto: da un giorno a un altro una cartoleria lascia il posto a un kombini e dove sorgeva una villa, le scavatrici abbattono la casa e il rigoglioso giardino intorno a lei, dopodiché, nell’arco di una settimana, inizieranno i lavori per la costruzione di un complesso di appartamenti di una decina di piani. Di anno in anno pare d’esser costretti a stare ancora più vicini, in treni, caffè e ristoranti a cui solo il Covid ha restituito il respiro d’uno spazio vitale, di una distanza sufficiente a far sentire a proprio agio un essere umano. Di contro la provincia e la compagna si svuotano, mano a mano che si alza l’età media della popolazione e i giovani scelgono in massa la capitale per studiare, lavorare, mettere su famiglia.Capita tuttavia – nella capitale come in provincia – che, su rettangoli di terra smossa, compaiano in ogni stagione fuscelli di bambù, si allestisca un piccolo gazebo, si dispongano file di sedie pieghevoli su cui andranno a sedere uomini e donne vestiti in giacca e cravatta, kimono, abiti della massima eleganza. Se si ha la fortuna di giungere nella mattina giusta, si può assistere così a una cerimonia che, a chi non ha dimestichezza con il Giappone e con il panorama variegato della sua ritualità, può sembrare un indecifrabile assembramento di cose e persone.Prima di edificare un nuovo edificio si svolgono infatti tre cerimonie, ognuna con un nome definito, e importanti come è tutto quanto che, nella tradizione locale, partecipa al concetto di kata. Si tratta del termine che intende la “forma”, un insieme fittissimo di convenzioni che coinvolgono non soltanto la lingua, ma che regolano rigidamente ogni fase di ogni processo in contesti sia pubblici che privati. Con kata si intende così l’immenso bagaglio di conoscenze che si ereditano dagli antenati e che la società reitera costantemente rinnovandone il senso.La prima traccia scritta che attesta la lunga tradizione di questi rituali shintoisti legati alla costruzione di nuovi edifici appare nel Nihon shoki (Annali del Giappone), e risale al 720 d.C.. Ha il triplo obiettivo di chiedere il permesso alle divinità della terra, di pregare per la sicurezza durante i lavori e di augurare il massimo benessere a chi vivrà o frequenterà l’edificio che sta per sbocciare. Se la prima cerimonia ( jichinsai ) si svolge prima di iniziare i lavori e sottende la presenza di un kannushi (prete shintoista), la seconda( j?t?shiki) avviene quando si sono poste le fondamenta e le impalcature principali, il tetto e le travi di colmo – segno del completamento dello scheletro della casa. La terza ( shunk?shiki), infine, consiste in una festa che celebra la conclusione dei lavori e si tiene all’interno dell’edificio nuovo di zecca.Mi ci sono imbattuta proprio lunedì scorso, sulla strada del ritorno. Mi sono fermata, ho posato a terra le buste della spesa e, prima che subentrasse l’imbarazzo sviluppato in questa terra, ho osservato il kannushi purificare i partecipanti e le offerte, poste su un altarino preparato per l’occasione, la bianca tunica e il copricapo allungato del religioso piegarsi a destra e sinistra, agitare un fuscello di sakaki (Cleyera japonica) – una pianta che nei tratti dell’ideogramma contiene la divinità. Riso, sale e striscioline di carta bianca, e quella litania di parole incomprensibili che suonano come una formula magica. Un uomo – colui che ha ordinato i lavori – ha sgretolato con una zappa, in tre colpi, una montagna di terra che pareva richiamare la forma del monte Fuji.Conosco a memoria le 12 fasi di questa cerimonia, eppure ogni volta non è in nulla scalfitta la meraviglia che provo nel constatare che in questo Paese, a ogni fase della vita, corrisponde un’architettura precisa di gesti e parole che la celebrano e le danno la giusta importanza. Pare un augurio nei confronti di un edificio che potrebbe durare decenni o solo dodici cambiamenti di luna. Ciò che importa è la celebrazione dell’intenzione, il momento.