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 2021  settembre 23 Giovedì calendario

Quando il cinema ci mette in crisi

È possibile disdegnare un film come Titane e non sentirsi invecchiati e superati come Nanni Moretti ha temuto per sé? Si può passare una vita accogliendo il nuovo, lo sperimentale, trovando anche soltanto in questo un lato difendibile, e poi incontrare il proprio limite? L’indipendenza nel giudizio (né soggezione ai critici né forzata contrapposizione) è un vezzo o si può ancora credere nell’onestà intellettuale? La giuria di Cannes, presieduta dall’onorabile Spike Lee, può aver preso un abbaglio per via dei fari dell’auto sullo schermo? Citare Fantozzi e la Potemkin non è diventata un’altra forma di conformismo? Ma perché i pompieri imitano i Village People? Prima che tutte queste domande mi si affollassero in testa ero in un cinema della Normandia per vedere, prima che uscisse in Italia, il film di una giovane regista francese che aveva stregato e fatto discutere.
Di Titane tutti conoscono l’estrema sinossi: una donna con una placca di metallo in testa fa sesso con un’automobile e resta incinta. Fin qui tutto bene. Almeno per me. Se Moretti trovava già valicato il confine, nella sala semivuota e poco sciovinista continuavo a guardare con piacere le immagini, volutamente estetizzanti, girate da Julia Ducournau. Da lì in poi, sarà passato un quarto d’ora, comincia un altro film. Mai avuto rigetto per certe forme di sadismo visivo e narrativo. Non per la macchina a spalla di Lars von Trier e per le calcolate pugnalate di Dancer in the dark o di Dogville. Non per certe scene di violenza, specie se reinterpretate in un modo già classico che definiamo infatti “alla Tarantino” o con quell’esplosione senza crescendo innescata da Bong Joon-ho. Va bene tutto: la trama spezzata o circolare ( Pulp fiction), il connubio tra il fantastico e il reale ( La forma dell’acqua), l’incontro inaspettato tra diversamente emarginati ( Gli amanti del Pont-Neuf). Perché allora la ragazza al titanio e il pompiere estrogenato no?
È una sensazione strana, quasi un senso di colpa: possiamo non amare quel che irrompe a squarciare la scena impolverata? Non finiremo tra i cantori del senno di poi? A pensarci bene, questo è un film già premiato, riconosciuto, che forse andrà agli Oscar. Naviga nel mainstream, non canaletto di nicchia, quindi possiamo prenderne le distanze senza sentirci bacchettoni. O è proprio per quello che ci viene più facile? Ma perché mai questi scrupoli? Qual è il messaggio? I mostri sono fra noi? Lo sappiamo dai fumetti di Dylan Dog. Esiste una forma d’amore che consiste nel riconoscere l’inganno eppure abbracciarlo? Certo, ma lo si è già visto nel Ritorno di Martin Guerre (e nel suo remake, Sommersby) e, prima di Vincent Lindon, a farsi scientemente abbindolare era stata Nicole Kidman in Io sono Sean.
La questione va oltre Titane. Riguarda quella sensazione di fondo, la stessa che probabilmente provarono gli spettatori della prima esecuzione di 4’33’’ di John Cage vedendo (e soprattutto ascoltando) il coperchio del pianoforte alzarsi, abbassarsi e niente più, non dal palco. La musica è nelle cose, voleva dire il maestro. Ci furono risolini nervosi e, certo, qualche applauso non meno nervoso alla fine. Ma la convinzione? Era una nuova frontiera o il punto di non ritorno?
"Mio fratello è figlio unico perché non ha mai criticato un film senza prima, prima vederlo”, ma dopo averlo diligentemente visto, possiamo pensare che l’avanguardismo a volte si trasformi in un ricatto? Che non trafficare su Twitch o ascoltare la trap non porti all’obsolescenza? Che i Måneskin li abbiamo avuti decenni fa, quando al cinema davano Arancia meccanica?
Un sospetto è questo: chi è nato negli anni Sessanta, Settanta e forse anche un po’ dopo, ha una mentalità dialettica, mette tutto in discussione, fa obiezioni anche a se stesso. Chi è giovane oggi va per le spicce, spara un pollice su o giù, like or not e cambia velocemente visione. Allora: “No, il dibattito no”, ma neppure il tecno-horror. E comunque molti anni fa ero in coda davanti a un cinema americano per vedere il film del momento: The Blair witch project, pellicola fintamente girata da un gruppo di ragazzi preda di una strega assassina. Intorno all’edificio passava un’auto decapottabile con alcuni giovani a bordo. Uno diceva al megafono: “Non andate a vedere la strega di Blair!”. Mi sono pentito di non aver seguito quel consiglio.