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 2021  settembre 23 Giovedì calendario

Lettera di Sir Keynes a noi nipoti

Contro il forte pessimismo, nel pieno della Grande Depressione, sulle prospettive economiche del Regno Unito Keynes offre una visione molto positiva del futuro. «La depressione che ha investito l’intero pianeta (…) ci impedisce di vedere sotto la superficie, e di capire dove stiamo andando.» Propone quindi come «antidoto alla miopia (…) una rapida incursione in un futuro ragionevolmente lontano» e si chiede: «Che livello di sviluppo economico (…) possiamo immaginare di raggiungere da qui a cento anni? Quali possibilità economiche avranno i nostri nipoti?».
La risposta arriva in due tempi. Anzitutto, estrapolando l’accumulazione di capitale e i progressi tecnologici dei precedenti due secoli, nonostante «l’enorme incremento della popolazione mondiale» e «un morbo (…) del quale [si] sentirà molto parlare negli anni a venire – la disoccupazione tecnologica» (peraltro «uno scompenso temporaneo»), Keynes si spinge «a prevedere che di qui a cento anni il tenore di vita nei Paesi avanzati sarà fra le quattro e le otto volte superiore a quello attuale (…). La conclusione è che, in assenza di conflitti drammatici, o di drammatici incrementi della popolazione, fra cento anni il problema economico sarà risolto, o almeno sarà prossimo alla soluzione».
Sarà quindi possibile fare meglio dei «ricchi di oggi, riuscendo a stilare un programma di vita molto migliore del loro». Anche se «ciascuno (…) sentirà di dover lavorare ancora un po’» – ecco la seconda previsione (o meglio “possibilità") –, «dovremo (…) mettere il più possibile in comune il lavoro superstite. Turni di tre ore, o settimane di quindici, potranno procrastinare per un po’ il problema. Tre ore al giorno dovrebbero senz’altro bastare».
Per quanto riguarda la crescita del benessere, la previsione di Keynes è stata sorprendentemente precisa, nonostante i «conflitti drammatici» e «il drammatico incremento della popolazione» che pure ci sono stati: tra il 1930 e il 2019 il Pil pro capite è aumentato di oltre cinque volte a livello mondiale, intorno a quattro nel Regno Unito. Bisogna osservare che si trattava di una previsione tutt’altro che semplice da formulare: «la grande epoca delle scoperte scientifiche e delle innovazioni tecnologiche» era iniziata da solo due secoli e la Grande Depressione alimentava dubbi sulle capacità dell’economia di tornare su quel sentiero di sviluppo. In effetti, sulla base della Teoria generale, vi fu chi elaborò invece la previsione di un “ristagno secolare” – una tesi, peraltro, tornata recentemente di moda.
Considerata come previsione (invece che come “possibilità"), quella riguardante le ore di lavoro risulta abbondantemente errata. La tendenza alla loro discesa, ben evidente prima del 1930, si è infatti bruscamente interrotta nel secondo dopoguerra.
Sulle ragioni di questo “errore” sono state avanzate numerose riflessioni, tra le quali la sottovalutazione del ruolo del lavoro nella realizzazione degli individui; la scelta consapevole di non tener conto dell’insaziabilità dei bisogni umani, non tanto quelli “assoluti”, necess ari per la sopravvivenza (cui si riferiva il superamento del «problema economico») quanto quelli relativi (generati dal desiderio di farci sentire “al di sopra dei nostri simili"); il considerare il tempo libero un bene “superiore” la cui domanda aumenta al crescere del reddito; l’ignorare la possibilità di nuovi bisogni generati da nuove invenzioni. (…) Anche se fortemente critico del principio, o del “mito”, della “mano invisibile” e delle degenerazioni di un capitalismo instabile e diseguale, Keynes ha sostenuto la necessità di un’economia di mercato, ancorché non affidata a sé stessa. Pure, sul piano morale, se non estetico, non ne condivideva i valori di fondo, l’accumulazione di ricchezza fine a sé stessa, l’amore «per il possesso del denaro – da non confondersi con l’amore per il denaro che serve a vivere meglio, a gustare la vita». Giudicava sì che per almeno cento anni, proprio per risolvere definitivamente il «problema economico» (anche se solo per i paesi avanzati), non si sarebbe potuto fare a meno di continuare a fingere con noi stessi che «il bene è male e il male è bene», come suggerito dalle streghe del Macbeth («fair is foul and foul is fair»). Ma, forse più come un auspicio che come un’effettiva “profezia”, Keynes guardava poi al momento in cui l’umanità si sarebbe liberata, grazie alla scienza e alla tecnica, dalla schiavitù del lavoro e si sarebbe dovuta porre la questione di come «sfruttare la libertà dalle pressioni economiche, (…) come vivere in modo saggio, piacevole, e salutare».
Da qui lo “snobismo”, oggetto di non pochi rilievi, che si rinviene in questo suo contributo, volto a diffondere una ventata di ottimismo in un momento critico di depressione economica e sociale. E quindi la raccomandazione che il tempo reso libero dal lavoro potesse essere destinato a sperimentare «the arts of life as well as the activities of purpose» (che tradurrei come “le arti e le attività che danno significato alla vita") come le poteva immaginare e apprezzare un visionario intellettuale, “economista e filosofo morale”, quale era il John Maynard Keynes pienamente partecipe dei valori e protagonista delle discussioni del Circolo di Bloomsbury.
Per concludere, se è impossibile prevedere il futuro, non si può che convenire oggi sull’utilità di elaborare scenari sulla base di ipotesi riguardo a ciò che ci aspetta quando si ragiona di possibili sviluppi tecnologici, demografici o sociali. Questi sviluppi furono al centro degli interessi di Keynes; il contributo qui considerato ne mette in luce l’ottimismo di fondo: lo scetticismo nell’operare delle forze di mercato è mitigato dalla fiducia che, se ben governate, esse sono forze utili (probabilmente le uniche accettabili) per conseguire “nel lungo periodo” condizioni auspicabili di stabilità, giustizia, benessere.
Non si può che ammirare il coraggio di Keynes nell’immaginare un futuro distante sì ma non distopico in anni così difficili quali quelli della Grande Depressione. Se fosse ancora con noi, non c’è dubbio che si interrogherebbe ancora sugli effetti delle innovazioni tecnologiche (i robot, il digitale), della demografia (l’invecchiamento della popolazione), delle disuguaglianze (non solo nei redditi). Come noi, non potrebbe non ragionare sui gravissimi rischi ambientali cui da anni sappiamo di dovere far fronte e su quelli, più recenti, che la drammatica crisi sanitaria ci spinge ad affrontare a livello globale e nel modo più coordinato possibile. Ci chiederebbe di affrontarli con determinazione e prontezza; resterebbe fiducioso nelle capacità di progresso dell’umanità.