La Stampa, 23 settembre 2021
Migranti climatici, i profughi di domani
La vera emergenza migranti non è quella di cui parla la propaganda populista, ma quella che potrebbe abbattersi sull’Europa se non verranno governati gli sconvolgimenti meteo-climatici che già oggi attraversano il pianeta. E che domani rischiano di capovolgere gli equilibri geopolitici della comunità internazionale e i rapporti sociali ed economici dei Paesi occidentali.
Stando ai dati presentati nell’ultimo rapporto della Banca Mondiale Growndshell entro il 2050 almeno 216 milioni di persone saranno costrette a migrare a causa del cambiamento climatico e delle sue conseguenze.
La quota più alta di queste migrazioni forzate, interesserà l’Africa sub-sahariana: 86 milioni di persone in fuga, il 4,2% della popolazione totale. E ancora 49 milioni di persone per l’Asia orientale e l’area del Pacifico, 40 milioni per l’Asia meridionale e poi a seguire con percentuali più basse, ma non per questo meno gravi, il Nord Africa, l’America latina e anche il vecchio continente, soprattutto l’Est europeo.
Una fotografia inquietante di cosa ci attende di qui a qualche anno, se i governi non sapranno trovare le risposte giuste alla più drammatica emergenza del nostro tempo. Gli scenari delineati dal rapporto lasciano tuttavia uno spiraglio di speranza: il numero di persone costrette a lasciare le proprie case potrebbe ridursi dell’80%, se si procedesse alla riduzione dei gas serra e se si cominciasse a lavorare a piani di sviluppo realmente green.
In caso contrario nei prossimi trent’anni singoli individui e intere comunità diverranno migranti climatici: un esercito di esseri umani in fuga da catastrofi naturali, dalla perdita di territorio dovuto all’innalzamento del livello del mare, dalla siccità, dalla desertificazione, dai conflitti per l’accaparramento delle risorse idriche o energetiche. Eventi estremi come inondazioni, tifoni, lunghi periodi di siccità, provocheranno la progressiva riduzione di aree da coltivare. Quando viene meno l’accesso a terra, acqua e mezzi di sussistenza, la migrazione diventa una forma estrema di adattamento.
Tutto questo si sta manifestando molto velocemente, più di quanto previsto in precedenza. Basti pensare che, solo tre anni fa, il primo rapporto Groundswell della Banca mondiale prevedeva che, entro il 2050, il cambiamento climatico avrebbe provocato la migrazione di 143 milioni di persone in tre regioni del pianeta: Asia meridionale, America Latina e Africa sub-sahariana.
L’impatto della crisi climatica non colpirà solo le zone più povere del pianeta. Gli effetti nefasti del cambiamento climatico stanno già portando a migrazioni interne anche nei Paesi avanzati e coinvolgendo la classe sociale medio-alta. Un fenomeno che ha già avuto inizio negli Stati Uniti, dove l’aumento del livello del mare sta causando ondate di gentrificazione nelle città più vulnerabili al clima, con un conseguente spostamento della popolazione più ricca verso quartieri popolari, situati in aree delle città meno esposte al rischio di inondazioni, uragani e incendi.
E in Italia? Già oggi la prima causa di gran parte del flusso migratorio verso il nostro Paese è costituita da fenomeni meteo-climatici. Nel dossier «I migranti ambientali. L’altra faccia della crisi climatica», presentato ieri da Legambiente, si delinea un quadro dei flussi migratori collegati direttamente o indirettamente alla crisi climatica: quasi il 38% delle nazionalità dichiarate dai migranti arrivati via mare nel nostro Paese, negli ultimi quattro anni, è riconducibile all’area del Sahel, che coincide con la fascia della desertificazione. In quell’area, l’agricoltura è fortemente dipendente dalle variazioni climatiche e l’esodo, ogni giorno di più, diventa una vera e propria lotta per la sopravvivenza.
Se a queste persone si aggiungono i migranti arrivati da Paesi dove lo stress ambientale è causa o concausa della migrazione, come Costa d’Avorio, Guinea, Bangladesh e Pakistan, si arriva al 68%. In pratica, sette migranti su dieci.
Ma non è tutto. Secondo diversi studi, l’innalzamento del livello dei mari potrebbe mettere in pericolo circa 150 milioni di persone: quelle che vivono in territori che finiranno sott’acqua entro il 2050. Parliamo di città costruite su un livello medio del mare molto basso, o quelle soggette a una subsidenza importante come Venezia. Ma anche la laguna di Taranto, il golfo di Oristano, la parte meridionale del nord Adriatico, sono tutte zone particolarmente sensibili.
E se domani i migranti climatici saremo noi? —a