Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  settembre 23 Giovedì calendario

Il prezzo di essere madri

Le mamme lavoratrici sono più penalizzate degli uomini. Al punto da essere costrette ad abbandonare il lavoro per le difficoltà incontrate nel conciliare l’attività professionale con quella genitoriale. La fotografia del fenomeno viene offerta dall’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl in sigla): nel 2020 si sono registrate oltre 42 mila dimissioni di genitori di bambini da zero a tre anni. E le donne rappresentano il 77,4% del totale delle persone che si sono dimesse.
Nel complesso, le dimissioni sono diminuite del 18% rispetto al 2019, anche perché probabilmente lo smart working ha allentato i problemi di gestione familiare, ma il dato che più salta all’occhio è l’effetto del “gender gap” che tra l’altro vede l’Italia come fanalino di coda dell’Ue nell’occupazione femminile. La molla che ha spinto tante mamme lavoratrici a sacrificare il lavoro è delineata nel rapporto Inl: «La condizione di genitorialità ha strutturalmente un impatto diverso sulla partecipazione al mercato del lavoro di uomini e donne. In presenza di figli la partecipazione maschile aumenta e quella femminile si riduce. Il passaggio avviene col primo figlio e si incrementa con il secondo, senza particolari differenziazioni a livello territoriale».
Questa dinamica ha valori più elevati nella classe di età 25-34. L’occupazione delle donne con un caponucleo tra i 20 e i 50 anni è al 60% senza figli tra zero e un anno nel nucleo familiare e al 50% con un figlio minore di un anno mentre nella stessa fascia l’occupazione maschile è all’86% senza figli tra zero e un anno e al 90% in presenza di neonati. Su 42.377 convalide arrivate da neogenitori la tipologia di recesso più frequente è costituita dalle dimissioni volontarie (oltre il 94%) mentre le dimissioni per giusta causa e le risoluzioni consensuali sono pari rispettivamente a circa il 4% e al 2% del totale. Sul complesso dei richiedenti, il 61% ha un figlio, il 32% due figli e il 7% più di due. L’età del figlio che più incide in questo fenomeno è quella fino ad un anno, quindi prevale l’esigenza di primo accudimento. Il terziario è il settore con più dimissioni di neogenitori (72% delle convalide).
La motivazione più frequente continua ad essere la difficoltà di conciliazione dell’occupazione lavorativa con le esigenze di cura della prole. «Esiste una profonda differenza di genere – scrive l’Inl – nel dato relativo alle motivazioni in quanto la difficoltà di esercizio della genitorialità in maniera compatibile con la propria occupazione è quasi esclusivamente femminile e riguarda donne in una percentuale tra il 96% e il 98%. La prevalente motivazione delle convalide riferite a uomini è, invece, il passaggio ad altra azienda». Oltre il 92% delle dimissioni e risoluzioni consensuali concerne lavoratori inquadrati come operai o impiegati, con un’età tra i 29 e i 44 anni e nell’88% dei casi la decisione di lasciare il lavoro è presa nei primi 10 anni di servizio.—