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 2021  settembre 22 Mercoledì calendario

Un figlio solo per poterlo far studiare. Un racconto di Donatella Di Pietrantonio

Quando si è sposata nella chiesa di Arsita mia madre aveva soltanto diciannove anni, lo sguardo un po’ spaurito di ragazza che non sa cosa aspettarsi nelle poche fotografie di quel giorno. Mio padre era un ventiquattrenne più baldanzoso e credeva di aver già conosciuto un pezzo di mondo. Era stato zappatore sui terrazzamenti liguri, giardiniere in Svizzera e infine operaio in una fabbrica di automobili tedesca. Insofferente del lavoro sotto padrone, era poi tornato sui magri poderi di famiglia. Oltre a certi attrezzi introvabili da noi, si era portato l’idea di un’altra vita.
Sono nata due anni dopo, mi hanno battezzata nella stessa chiesa sotto una nevicata epocale. Inutilmente nonni e zii hanno atteso la nidiata dei nipoti, non sono mai arrivati. Nelle case a fianco qualcuno sospettava una sterilità secondaria di mia madre, i più maligni che mio padre non fosse abbastanza voglioso o potente. Invece loro avevano deciso così: un solo bambino, e pazienza se era uscita femmina. Il primo desiderio dei miei genitori quando non ero che una fantasia di giovani sposi, è stato che studiassi e andassi via da lì. Questo era il patto della coppia e non poteva essere esteso a più figli. È stata la loro rivoluzione.
Mio padre e mia madre erano i soci più affiatati che abbia mai conosciuto. Nei ricordi di quegli anni l’impressione della loro alleanza prevale su tutto, anche sull’amore per me. Se avessero avuto un capitale più ricco dei pochi ettari di terra frazionata e scoscesa avrebbero preso il mondo. Erano troppo poveri per accedere alle tecnologie agrarie degli Anni 60 e su certe pendenze nessun trattore si sarebbe comunque tenuto in equilibrio. Lavoravano con le mani, le zappe e i muli fino a strappare quei raccolti primitivi ed eroici. Il grano, le patate, i fagioli. Vendevano gli agnelli alla fiera di Pasqua e mettevano i soldi da parte.
La fatica li univa, rientravano a casa con il buio, esausti e appagati della trebbiatura conclusa o rabbiosi per il fieno bagnato da una pioggia a tradimento. Si aiutavano con parenti e vicini, ma l’asse tra di loro aveva una forza esclusiva.
A sei o sette anni mi sentivo di troppo, ancora inutile alla loro impresa. Mi amavano, ma con me perdevano tempo. Mangiavo controvoglia, cadevo in febbroni ricorrenti. Senza me la terra e il lavoro gli avrebbe fruttato di più. Eppure crescevo da sola, con pochi sguardi sopra.
Avevo paura del vento che poteva portarmi via, del gallo aggressivo che si appostava in fondo alle scale per saltarmi addosso. Il gallo e il vento non erano che fantocci della vera paura, non essere nei loro pensieri. Erano così affaccendati nella costruzione di un futuro diverso per noi, da dimenticarmi.
A sette anni non capivo dove si stavano arrampicando. Non chiedevo niente e loro non si spiegavano, li seguivo a strascico mentre ce la facevano, ma ero tutta fallata.
Erano complici, avevano i loro segreti. Sotto la biancheria del comò ho trovato una volta delle strane confezioni con la scritta Hatù: non avevamo ancora la corrente elettrica, ma quel genio di mio padre comprava profilattici quando andava a Teramo.
Erano una diade di ferro, io la terza gamba traballante. Esterna e gelosa.
Avrei voluto almeno una sorella. Le altre, a scuola, ne avevano. La mia compagna di banco ben quattro, una in ogni classe. Arrivavano ogni mattina dal poggio vociando, io sola dal bosco. Ricordo il vecchio casolare in cui abitavano, il fumo del camino che pizzicava gli occhi, l’allegria dei pranzi di minestre scondite. Ogni giorno sembrava una festa di niente.
A posteriori
Il vantaggio che hanno voluto darmi non era scontato, ma l’ho capito tardi, nella mia mezza età
I loro genitori erano in minoranza, lavoravano e figliavano, le sorelle si crescevano l’una con l’altra. Nessuno si aspettava qualcosa da loro, se non la salute e «un domani» il matrimonio con un contadino del posto. Le rivedo intente a farsi le trecce a vicenda, e dopo cinque minuti a tirarsi i capelli urlando. Invidiavo l’intimità tra quei corpi così simili da sembrare momenti diversi dello sviluppo di una sola bambina. Ridevano, giocavano. Io contavo poco, ero l’amica di un’ora che avrebbero scordato appena fossi uscita dalla porta sgangherata.
A casa mia il gioco non era considerato, il riso sospetto.
«Chi ride di venerdì piange la domenica» minacciava mia madre se mi lasciavo troppo andare.
Mio padre approvava in silenzio. La vita era pena e sacrificio, poi forse un giorno avremmo goduto.
Dovevo restare figlia unica, ma senza vizi. Perciò pochi i regali – una bambola o un libro di favole – e minime le carezze. Avrebbero potuto guastarmi. A casa mia non passava che di rado la gioia.
I miei hanno poi comprato una campagna più a valle, più grande e comoda, con una casa vicino alla fermata dell’autobus sulla strada provinciale. Lì sarei salita per andare al liceo.
Hanno ottenuto ciò che volevano per se stessi, e per me. Mi hanno insegnato una volontà feroce, la resistenza. Ma non siamo mai stati capaci, né loro né io, di essere felici. Non sapevano riposarsi. Si sono inventati nuovi obiettivi pur di spendere la loro energia: trattori, attrezzature a rate, un pezzo di terra acquistato dal vicino.
Quella campagna coltivata, con la fila dei meli che va dritta fino al taglio del fosso resta il capolavoro di due vite legate fino in fondo. Non sono stata io a unirli, né a dividerli, non sono stata il loro centro. Di questo non li perdonavo, e della sorella negata. Se l’avessero concepita, sarebbe stata la mia compagna nelle loro intermittenze.
Il vantaggio che hanno voluto darmi non era scontato, ma l’ho capito tardi, nella mia mezza età. Prima di allora in ogni scelta dei genitori è più facile vedere la parte mancante che il dono. Ci siamo sempre parlati poco e tra le tante parole non dette metto quelle della gratitudine.