la Repubblica, 22 settembre 2021
Un ritratto del rapper Izi
, in arte Izi, ha raccolto l’eredità della scuola di Tenco e De André. Canta di sentimento religioso e diritti degli ultimi e dice: “Voglio fare la storia, quella sui libri"
di Simonetta Sciandivasci
Quando parla del suo lavoro, Izi dice che non è fare il rapper o il musicista o l’artista, né usa la parola lavoro. Usa missione, che è verbo di fede, e non mission, che è aziendale. Izi si chiama Diego Germini, ha ventisei anni, è cresciuto a Cogoleto e a Genova. Izi come easy, facile. Crede in Dio, legge la Bibbia e lo dice e canta apertamente, come hanno fatto diversi suoi predecessori, ormai classici, da 2Pac a Missy Elliott, da Kanye West a Kendrick Lamar, tutti più o meno consapevoli di quanto il rap sia in debito con i sermoni dei pastori protestanti; come fanno molti colleghi suoi coetanei, da Speranza dei cui fioretti si chiacchiera con toni di leggenda ai suoi concerti, sotto cassa, laddove noi immaginiamo avvengano scambi di pasticche, a Mace, produttore suo e di alcuni altri notabili del rap italiano, alcuni dei quali piuttosto attempati (Fabri Fibra, Colle der Fomento, Marracash). Proprio in un pezzo con Mace, Izi canta:
mi sveglio, penso solo AMEN; ciò che disegno non viene da me, dimmi, dammi un senso.
Forse, anziché contare le presenze in chiesa, potremmo provare a contare quante volte è nominato o invocato dio nel rap: servirebbe forse a renderci conto che la crisi della chiesa non è la crisi di dio, né della religione, meno ancora della spiritualità. Due anni fa, David Brooks scrisse sul New York Times che gli adolescenti americani stavano riscoprendo la spiritualità attraverso l’astrologia e la cartomanzia, poiché in nome di stelle e carte nessuno è mai stato ammazzato, discriminato, recluso, mortificato. Dalle nostre parti, una lieve traccia di quella tendenza c’è stata nell’indie pop: sono stati e sono tuttora i millennial ad affidarsi alla lettura del futuro. Gli Z sono più fattivi, a dio (quale che sia, e liberato dalle liturgie) ricorrono per ricomporre l’armonia (sociale, ambientale), non per chiedere protezione.
Del religioso, Izi ha poi il sentirsi parte e strumento di un disegno che lo trascende, al servizio del quale si mette per darsi al prossimo. In un’intervista a Noisey ha detto: «Mi interessa manifestarmi, essere me stesso al punto che gli altri possano essere loro stessi». Significa dismettere il giudizio, ed è di questo che parla, la Gen Z, quando chiede che l’identità sia una scelta e non un protocollo, un’energia rinnovabile e non un documento.
Non dice: siamo tutto, anche se questo sembra, quando ragiona, talvolta straparlando, di fluidità di genere. Dice: scegliamo tutto. Il contributo che ciascuno deve dare alla libertà degli altri sta nel non giudicarli. Sembra poco e facile: qualche secolo di storia dimostra che è molto e difficile.
Per Izi, nella sua missione, conta raccontare gli ultimi. È il punto che lo avvicina, e avvicina il rap, alla tradizione cantautorale italiana: in un documentario che esplora questo intreccio, e che uscirà nei prossimi mesi, La nuova scuola genovese, Gian Piero Alloisio dice: «Quando è nata, la canzone d’autore è stata rivoluzionaria quanto il rap perché è stata un movimento antiborghese, e ha cantato le periferie di allora come il rap denuncia la mutazione della città». Nel medesimo documentario (di Yuri Dellacasa, Paolo Fossati e Claudio Cabona), Ivano Fossati dice che i rapper italiani sono oggi capaci di prendersi una libertà come i cantautori della sua generazione non hanno osato né saputo fare.
La scena rap genovese, dove lavorano Izi e la sua crew, i Wild Bandana, è vivace quanto lo è stata quella di De Andrè, Tenco e Paoli e smentisce una delle molte fandonie che spesso vengono dette a proposito dei ventenni e della musica che ascoltano (e di tutti i loro consumi culturali), ovverosia che non abbiano idea di cos’hanno alle spalle o, se pure la hanno, non sanno apprezzarla. Izi evidenzia spesso il suo debito verso De Andrè, il suo amore per Pasolini, per l’etimologia, per Gurdjieff – «dentro l’orecchio una pulce, punge. Noi che parliamo di strada e di Gurdjieff, chi è vero non fugge».
Izi non parla quasi mai a nome suo e basta, c’è sempre un plurale: perché il rap è identitario e definisce comunità precise, perché lui è nato e cresciuto dentro un collettivo, ma pure perché, «come diceva De André – diceva Izi in un’intervista di qualche anno fa – io presto la voce a un capo tribù indiano». E, a smentita (un’altra) delle nostre accuse di mancanza di senso della sfumatura, del paradosso, e di negazione ottusa del male: «C’è anche Hitler dentro di me».
Immaturi vanesi egocentrici moralisti a chi? Diego è uno di contenuti. Ed è anche sexy. Divertente. Carnale. Ballabilissimo. Provate con S8, Flop, Miami ladies (special guest: Elettra Lamborghini) di Riot, il suo ultimo disco, uscito a ottobre scorso, e annunciato sui social con una frase di Martin Luther King: «Una rivolta è il linguaggio di chi non viene ascoltato». Lui lo ha definito così: «Un invito a usare i poteri che abbiamo, un urlo di strazio che proviene da chi cerca di comunicare da un’eternità». Si sente il credente anche qui: si sente sempre il credente, in Izi. E si sentono Genova, l’essenzialità, l’amicizia, il coinvolgimento nella realtà, gli occhi spalancati. Dice in Pusher : Ti porto a vedere cose molto severe ma giuste.
In Izi è cristiano e, insieme, politico, anche il passo indietro, l’impegno per gli altri – Diego, l’ego ce l’ho anche io ma non lo voglio tirar fuori. Che non sia propriamente un eccentrico lo si vede dall’aspetto: niente tatuaggi in viso, niente catene, anelli, brand in bella vista. Ha i suoi baffi da sudamericano, le sue t-shirt nere, il suo chiodo. E si vede dall’importanza che dà agli amici, che sono il suo argine all’omologazione, al compromesso. Amici, un pezzo di Massimo Pericolo, che Izi ama molto, dice:
Noi non faremo l’errore come fanno le altre persone di fare la scelta più giusta invece di quella migliore. Qualcuno ha scritto che Izi è un anti rapper, perché è estraneo all’esaltazione di sé, che nell’hip hop è un punto cruciale per molti artisti. Lui ha altre ambizioni: «Voglio fare la storia, quella sui libri. Tu vuoi avere la gloria da mentecatto». E detesta quelli seduti sul genere: «Sono pazzo quando ascolto questi rapper con un coltello vorrei farli a fette che ripetono la stessa storia di sempre». Izi ha scoperto di avere il diabete da molto piccolo, e da molto piccolo ha visto i suoi genitori separarsi. E allora è scappato di casa, è finito in coma, ha sofferto di depressione. Sono tutte cose che non gli hanno mai ispirato prudenza – Io faccio il pazzo, brucio Parigi per te, ma tu non bruci per me. Soprattutto, sono tutte cose finite nei suoi testi in trasparenza, in coda a ciò che più gli preme: il mondo. Il mondo salvato dai ragazzini, e salvato per tutti quanti, ultimi e primi.
Non parla quasi mai a nome suo e basta, c’è sempre un plurale