la Repubblica, 21 settembre 2021
Intervista a Chimamanda Ngozi Adichie
Lettera al padre. A proposito degli Appunti sul dolore di Chimamanda Ngozi Adichie, in uscita per Einaudi, potremmo rubare a Kafka quel leggendario titolo, ma ribaltandone i contenuti per metterli in una luce drasticamente positiva. Nel nuovo libro della scrittrice nigeriana, il rapporto con la figura paterna non appare intriso di paura e rancori, bensì consiste in un vincolo solare e colmo di gratitudine.
Dai trenta frammenti che formano questa raccolta di riflessioni autobiografiche, emerge il riconoscimento sia del valore di un uomo solido e integro, il professore universitario James Nwoye Adichie, sia delle modalità con cui egli ha influito sulla realizzazione di sua figlia. Tramite il racconto della morte del padre, avvenuta nel giugno 2020, l’autrice di romanzi come L’ibisco viola e Metà di un sole giallo esprime il suo sentimento del lutto, indaga i passaggi di un distacco lacerante e canta le lodi di radici familiari alle quali deve i propri cardini intellettuali e affettivi.
La magnifica Adichie è stata sempre in prima linea nella lotta per i diritti delle donne, vedi i suoi pamphlet come Dovremmo essere tutti femministi e
Quindici consigli per crescere una bambina femminista. Leggere ora i suoi catartici Appunti sul dolore può restituirci la consapevolezza, molto confortante, dell’esistenza di un’audace mente femminista cresciuta nel segno di una personalità genitoriale maschile aperta e generosa. In questi tempi di conflittualità fra i generi non è poco.
Chimamanda, che vive tra gli Stati Uniti e l’Africa, e che il 14 ottobre aprirà a Torino il Salone del Libro, risponde dalla Nigeria alle domande dell’intervista, fatta via Zoom. Malgrado la mediazione fredda dello schermo, ci si trova subito investiti dall’onda calda del suo carisma.
Quale funzione ha avuto per lei questo libro? Esorcizzare la perdita?
Celebrare una creatura d’eccezione?
Analizzare il senso del lutto?
«Ho voluto elaborare la sofferenza per la scomparsa di mio padre scrivendone e comunicando agli altri ciò che ho provato. Prima supponevo che questo tipo di dolore sarebbe stato una specie di tristezza, ma non è così. Si può anche ridere. E certe sensazioni sono fisiche, dirette. Pesantezza, ansia, panico. Le mie scoperte andavano condivise».
Spiega d’aver percepito la propria caducità con un’urgenza nuova, infiltratasi nella scrittura.
«Mio padre era il centro della mia vita.
Molte decisioni fondamentali le ho prese per renderlo felice. Quando se n’è andato, la morte è divenuta qualcosa di molto vicino e ha sollecitato in me domande quali: chi voglio essere? Ho sprecato il mio tempo? Su che cosa ho barato? Nella mia prosa si è fatta strada una voce diversa, dettata da un’incombente precarietà».
Il clima cupo della pandemia ha influito sulla sua violenta reazione al lutto?
«Sarei stata devastata dalla scomparsa di mio padre anche se fosse morto in una situazione “normale”. Quando una persona che ami se ne va per sempre, vieni catturato da un senso d’irrealtà. Il fatto che la morte sia avvenuta durante il lockdown, che m’impediva di tornare a casa, l’ha resa ancora più irreale. Per molti giorni, svegliandomi di mattina, mi veniva da domandarmi: papà è morto davvero?».
La concezione occidentale del lutto differisce molto da quella africana?
«Gli africani non affrontano il dolore in silenzio, ma col rumore. Danzando, cantando, gridando. In Occidente bisogna chiuderlo dentro di sé. Mi turbò sapere che avremmo dovuto ballare al funerale di mio padre, ma poi l’essere circondata da persone che cantavano, danzavano o piangevano mi ha dato sollievo. Non gestire in solitudine il dolore ci può aiutare».
Straordinaria è la ricchezza dell’intesa padre-figlia che affiora dal libro.
«Mio padre era fiero di me con onestà.
Era il mio primo lettore. Leggeva ogni testo prima della pubblicazione e poteva dirmi, senza giri di parole: è spazzatura. Ma se lo reputava meraviglioso mi festeggiava al massimo. Fin da piccola mi ha ascoltata con attenzione, e ciò è stato decisivo per me. Il rapporto col padre modella il modo in cui la donna si pone di fronte all’approvazione degli uomini, e grazie a papà non ho mai temuto la disapprovazione maschile».
Nei suoi libri compaiono spesso personaggi dell’etnia igbo, la sua. Quali sono le peculiarità di questo gruppo?
«Si dice che gli igbo siano materialisti e amino il denaro. Molti sono commercianti e hanno doti imprenditoriali. In Nigeria circola una battuta: “Non assumere un igbo come collaboratore domestico perché si approprierà della tua casa in pochi anni”. Le donne igbo sono ambiziose e hanno fiducia in sé, e io riconosco in me questi due tratti. Sono cresciuta in un ambiente universitario e piuttosto “occidentale”, pieno di libri. Ma tutto era anche radicato nell’essere igbo, cultura egualitaria che incoraggia i bambini a porre domande. Essere ascoltati dagli adulti infonde sicurezza.
Mio padre ci riferiva le vicende di suo padre, di suo nonno e della sua bisnonna. Storie che mi hanno insegnato chi sono. Sono a mio agio nel mondo perché conosco a fondo le mie origini».
Uno degli spunti ritornanti nei suoi scritti è quello della diaspora, come innesto fra culture o come abbandono della propria identità in nome di un’altra cultura, in particolare di quella americana. Può parlarne?
«L’America ha un capillare potere culturale e ci condiziona coi suoi film, la sua musica e la sua cultura pop.
Consentiamo agli Stati Uniti di dettare i termini dei nostri discorsi. Per esempio oggi, in Nigeria, i giovani discutono sull’essere neri con dibattiti sui social.
Eppure non è un nostro tema identitario. È irrilevante e solo adottato, poiché in Nigeria tutti sono neri.
Contano l’etnia, la religione e la classe.
Nel romanzo Americanah ho narrato come negli Usa io abbia scoperto una mia nuova identità. Ho un legame con gli afroamericani perché abbiamo gli stessi antenati. Tuttavia loro sono americani e io no. Hanno trascorsi dissimili da quelli di un africano, e sono le esperienze a plasmare il modo in cui guardiamo la realtà e ci relazioniamo agli altri».
Essere un’icona del femminismo è un onore o un peso?
«Entrambe le cose. Ho scelto di parlare di femminismo per raggiungere le persone. Il sessismo mi ha fatta sempre arrabbiare e c’è una parte di me che ha il complesso del Messia, cioè la voglia di cambiare una piccola fetta di mondo.
Però è terribile se la gente non riesce più a vederti come un essere umano con caratteristiche personali, ma solo come l’esponente di un movimento. Sei una tazza vuota in cui c’è chi versa le proprie aspettative. Se non le soddisfi paghi le conseguenze. Voglio avere il permesso di essere un individuo».
Non crede che oggi l’etichetta “femminismo” corra spesso il rischio d’essere manipolata?
«Serve una parola da pronunciare per combattere un’epidemia globale. Il sessismo si manifesta in svariati modi ma è diffuso ovunque, nell’Afghanistan dei talebani come nell’Italia dei femminicidi. In certi ambiti le donne hanno assunto posti di potere, ma permane la convinzione che debbano essere culturalmente sottomesse agli uomini. Allo stesso tempo la parola femminismo è stata appesantita da troppi significati in Occidente. Tuttavia intendo continuare a usarla da quando qualcuno mi ha detto: “Perché non parli di womanism? No! Voglio riprendermi il femminismo. Aspiro a ripristinare il senso essenziale del termine».