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 2021  settembre 20 Lunedì calendario

Le donne di Kabul non possono più lavorare

Ci provano, e ci vuole coraggio. Ieri una ventina di attiviste della Rete dei movimenti femminili sono scese in strada nel centro di Kabul, davanti al ministero per la tutela delle donne trasformato dai talebani nel “Ministero per la promozione della virtù e la repressione del vizio”. Bloccando il traffico caotico della capitale, stringevano cartelli bianchi tra le dita con scritto «Istruzione, lavoro e libertà»; ma il regime misogino e autarchico che si è preso l’Afghanistan non tollera affatto il dissenso. In dieci minuti sono state cacciate dai barbuti col fucile, la manifestazione dispersa.
Mentre scricchiola il mantra della sicurezza – i primi attentati nella provincia di Jalalabad, ieri tre morti, sono stati rivendicati ufficialmente dal nemico giurato dell’Isis – il governo talebano si fa sempre più arrogante. Giorni fa le impiegate del ministero erano state sospese e avevano protestato davanti alle telecamere: «Preferisco morire piuttosto che perdere il lavoro», urlava una madre single che su quei soldi contava per sostenere la famiglia. Ieri il nuovo sindaco ad interim Molavi Hamdullah Nomani ha spiegato ai giornalisti che i talebani «hanno ritenuto necessario impedire alle donne di lavorare per un po’», giusto il tempo di realizzare la separazione tra i sessi. Con lo stesso criterio sono state lasciate a casa in tutto il Paese – nessuno sa fino a quando – le docenti e le studentesse delle medie e superiori. A Kabul più di un quarto dei dipendenti pubblici erano donne. Per il sindaco per ora possono lavorare solo quelle «necessarie, o in posizioni che gli uomini non possono ricoprire o che non sono per gli uomini». Ma neppure per i talebani è scontato poter innestare la marcia indietro in un Paese in cui dopo la caduta del loro governo nel 2001 la frequenza scolastica delle ragazze è salita da zero all’80 per cento, in cui la mortalità infantile è dimezzata e il matrimonio forzato è diventato illegale. Sono ormai quotidiane le proteste, limitate solo dal terrore che incutono i miliziani armati: percuotono persino le auto, con bastoni e con il calcio del fucile, per smistare il traffico. Due giorni fa a Herat in piazza c’erano anche gli uomini, a urlare contro il governo dei talebani e l’asservimento al Pakistan; la risposta è stata durissima: due morti e almeno quattro feriti. Per l’oratore della Grande Moschea, Rumi Mujibah al-Rahman Ansari, i talebani hanno fatto bene. In un sermone ha condannato le “insurrezioni” consigliando di reprimerle con decisione: «Il governo islamico ha il diritto religioso di imporre la disciplina».
Così, mentre crescono le proteste aumentano repressione e censura: mercoledì i talebani hanno arrestato a Herat Noorahmad Barzin Khatibi, 75enne ex membro della direzione dell’Afghan National Congress Party, critico sia con il capitalismo che con la dittatura teocratica. Diversi giornalisti sono finiti dietro le sbarre e sono stati poi liberati, ma qualcuno come il fotografo Morteza Samadi resta ancora in carcere. Altri sono stati picchiati, altri ancora come l’interprete Mustafa Nik zad e il fotografo Sirus Amer sono scampati a fucilate – Amer ha un proiettile conficcato nella gamba.
Mentre cercano di convincere il mondo di essere cambiati e di essere affidabili, i talebani soffocano l’informazione indipendente fiorita in questi venti anni perché non mostri il contrario. Il ministro dell’Informazione, il mullah Khairullah Khairkhah, ha esortato i media a pubblicare contenuti che ispirino «il bene di questo mondo e dell’aldilà». Le cattive notizie non piacciono, non si deve «distruggere la mentalità collettiva» o promuovere una cultura non islamica e non afghana. Articoli e programmi televisivi dovrebbero piuttosto essere «conformi ai principi della giurisprudenza islamica, dei costumi e delle tradizioni afghane». Da quando i talebani hanno preso il controllo di Kabul, il 15 agosto, 153 media locali sono stati chiusi e molti programmi tv sono stati sospesi, come quelli comici e musicali, o hanno perso gran parte della presenza femminile. E con i giornalisti stranieri il ministero dell’Informazione mette le mani avanti: «Non partecipate a proteste e manifestazioni, potreste subire violenza e avere il materiale distrutto».