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 2021  settembre 20 Lunedì calendario

Intervista a Paolo Virzì


Con la sua risata contagiosa, un po’ barriera per proteggersi, un po’ mano tesa per comunicare, Paolo Virzì parla dei suoi film, spiegando che, spesso, si è trattato di tragedie travestite da commedie e che, nel mondo del cinema, gli steccati di genere non hanno senso. Intervistato nell’ambito dell’iniziativa «Mastercard e la Biennale di Venezia» curata da Tiziana Rocca, l’autore di Tutta la vita davanti traccia le linee del suo nuovo film Siccità, scritto con Francesca Archibugi, Paolo Giordano e Francesco Piccolo, ambientato in una Roma assetata, dove l’assenza di pioggia, durata tre anni, ha ormai mutato le regole di vita: «Nella città che muore di sete e di divieti, si muove un coro di personaggi, giovani e vecchi, emarginati e di successo, vittime e approfittatori. Le loro esistenze sono legate in un unico disegno beffardo e tragico, mentre cercano ognuno la propria redenzione».
Una situazione di emergenza che, inevitabilmente, fa pensare a quella appena attraversata durante i lunghi mesi di Covid e lockdown. Nel film, che dovrebbe arrivare nei cinema tra dicembre e gennaio, recitano tanti attori italiani, Emanuela Fanelli, Elena Lietti, Vinicio Marchioni, Valerio Mastandrea, Gabriel Montesi, Silvio Orlando, Claudia Pandolfi, Tommaso Ragno, Diego Ribon, Sara Serraiocco, Max Tortora e Monica Bellucci, in un’apparizione che ha molto a che vedere con sé stessa.
Che tipo di film è «Siccità»?
«È un film corale. Mi è sempre piaciuto mescolare il drammatico con l’ironia, ho iniziato a fare il regista con la vicenda di un operaio che perde il lavoro, ho fatto dei thriller e anche film “on the road” con gente destinata a morire, il tragico mi è sempre piaciuto, l’ho sempre corteggiato. Stavolta, di veramente nuovo, c’è lo scenario differente, stiamo provando a guardare avanti, a immaginare quello che potrebbe esserci dopo».
L’emergenza idrica di «Siccità» fa venire in mente quella che abbiamo appena vissuto, legata alla pandemia. È da lì che è venuta la sua ispirazione?
«I film non si fanno sui temi, su quelli si girano i documentari e le inchieste. Raccontare questo momento di crisi idrica a Roma serve a creare un contesto in cui si muovono personaggi di cui seguiamo le vicende intime ed esistenziali. Ci interessa, più del problema dei cambiamenti climatici e delle difficoltà globali che esso provoca, l’aridità del cuore, quello che influenza le relazioni e i sentimenti dopo un periodo in cui siamo stati obbligati a restare distanti».
Nel film recita anche Monica Bellucci, che parte ha?
«È venuta, molto generosamente, a interpretare una specie di Monica Bellucci, ovvero una bellissima diva del cinema, non c’era nessun’altra che potesse incarnare così bene il personaggio».
La Mostra di Venezia ha dato il via alla ripartenza del cinema, pensa che il segnale stia avendo effetti concreti?
«Mi auguro che entro l’autunno e l’inverno l’Italia si sia tutta vaccinata e che quindi si possa entrare nelle sale comodamente, senza porsi troppi problemi di distanziamenti, ma con l’accortezza e la misura di chi è consapevole di quello che è accaduto. La Mostra ha avuto un significato simbolico, come l’esplosione della pistola dello start per dire “ripartiamo tutti insieme"».
Qual è il segno più forte che la pausa forzata ha lasciato nel mondo del cinema italiano?
«In realtà non c’è mai stato uno stop totale, abbiamo girato film con modalità da reparto di infettivologia, ci siamo misurati con il rigore delle norme, quelli del cinema italiano erano sempre considerati un po’ degli zingari e invece abbiamo dimostrato di saper fare le cose seriamente».
La commedia è spesso bandita dai festival, in favore del cinema d’impegno. Lei che ne dice?
«Mi sembra che, negli ultimi anni, ma forse anche da prima, i grandi film non possano fare a meno dell’ironia. Chiudere i film nei recinti è una cosa che appartiene al passato, è stato il pubblico ad abbattere questo genere di divisioni».
Film e serie: chi vincerà? E, soprattutto, lei come vive i due mezzi espressivi?
«Mi piacciono entrambi, ma, sia come autore che come spettatore, continuo a preferire i film. Forse sarà perché la modalità del “binge watching” la vivo come un po’ ansiogena, è un tipo di soddisfazione che lascia sempre inappagati, per esserlo del tutto hai sempre un altro episodio da vedere, l’appagamento pieno per me viene dal film, questo non significa, naturalmente, che non ci siano serie bellissime che mi abbiano incantato e che io abbia visto con grande piacere». —