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 2020  agosto 18 Martedì calendario

Su "Le guerre commerciali sono guerre di classe" di Matthew C. Klein e Michael Pettis (Einaudi)

Contrordine, compagni. Abbiamo passato gli ultimi anni a discutere di guerre commerciali tra paesi e sistemi, su tutte la contesa Stati Uniti-Cina, ma non ci eravamo capiti. È tutto frutto di un fraintendimento. La guerra non è tra Paesi diversi: sono le classi sociali all’interno dei singoli Paesi a generare una lotta senza facili risposte, che a sua volta provoca conseguenze indesiderate per gli altri Paesi. Tutti in faticosa ricerca di un nuovo equilibrio economico globale, che scritto così sembrerebbe lontano dal potere d’acquisto sgretolato del nostro povero lavoratore italiano, ma tradotto scarica inesorabilmente sui più deboli le incoerenze di questa disordinata riorganizzazione dell’economia internazionale. La tesi che rimette al centro il conflitto di classe non arriva da qualche circolo sinistrorso bensì da un nuovo libro pubblicato dalla casa editrice di Yale. Trade Wars Are Class Wars, ovvero le guerre commerciali sono guerre di classe, scrivono gli autori, due economisti, Matthew C. Klein e Michael Pettis.

Il volume è controintuitivo, perché obbliga a tenere in considerazione il punto di vista del proletario cinese, del governante tedesco ossessionato dallo schwarze null, il pareggio di bilancio, e del gestore finanziario americano. Il compromesso è necessario. Ma proprio per questo è convincente: affronta la sfida di questa e delle prossime generazioni, le diseguaglianze, avendo il coraggio di contestualizzare senza ideologie. Se il lavoro di Thomas Piketty ha centrato il cuore del problema, questo libro fa persino di più perché amplia lo sguardo, spiega come siamo arrivati qui. Sa proporre un percorso nuovo, fuggendo da pensieri unici. Non entra in un dibattito ingenuo sul presunto sovranismo economico, perché riconosce che l’evoluzione del commercio globale può essere letta soltanto attraverso le relazioni tra Paesi diversi. Non c’è all’orizzonte la fine della globalizzazione, nonostante il rallentamento del commercio di questi mesi e i nuovi confini che emergono.

Ogni scelta ha le sue conseguenze, e gli autori partono per forza dai primi imperi economici per introdurre il concetto di surplus, l’eccesso di produzione che andrà esportato. Ma non ci sono solo i container di prodotti di consumo che partono da Shanghai e arrivano a Los Angeles prima di entrare nel mercato americano da consumatori che hanno pagato il low cost cinese con il loro lavoro. In molti Paesi dei più evoluti le élite sono state capaci di guadagnare sempre di più, e si sono trovate con una nuova tipologia di eccesso: i risparmi da gestire. Lo Stato tedesco ha tagliato minuziosamente la spesa pubblica (fino alla rivoluzione causata dal coronavirus), trasferendo i benefici ai più ricchi, che si sono poi trovati ad accumulare asset stranieri e persino ad ampliare la disponibilità di finanziamenti bancari ai consumatori del Sud Europa. È vero, gli italiani avevano bisogno del mutuo, ma i tedeschi avevano bisogno di chi il mutuo fosse disposto a pagarlo.

Il più grande magnete di questo eccesso di risparmio sono gli Stati Uniti, in testa alla classifica dei paesi con il deficit più ampio. Mentre facevano il poliziotto del mondo, gli Usa hanno anche agito da ufficiosa banca centrale mondiale: hanno dato le carte agli altri, ma per mantenere questo ruolo ne hanno pagato il prezzo in bolle immobiliari, crisi finanziarie e manodopera bruciata dalle svalutazioni altrui. Il mondo non voleva spendere e parcheggiava il denaro dai grandi gestori americani, in dollari, causando, scrivono Klein e Pettis, «sia la bolla del debito americano che la deindustrializzazione del Paese».

Il libro è stato chiuso prima dello scoppio della pandemia ma c’è davvero poco che non sia tenuto in considerazione. Visto così, il virus presenta soltanto una lista dei compiti da fare con nuova urgenza. La risposta non può che essere nella redistribuzione della ricchezza, in primis in Cina, che, sembrano convinti gli autori, è il vero problema dell’economia mondiale, dove i consumatori non hanno potere perché i lavoratori non osano chiedere diritti. La trasformazione dovrà essere anche politica, dunque, e non è semplice.

L’agenda anti-Cina imposta da Donald Trump ha sicuramente molti più seguaci oggi che quattro anni fa, e anche se il presidente fosse sconfitto, molte misure sarebbero confermate da Joe Biden. Ma i dazi non funzionano per sempre. L’Unione europea, scrivono Klein e Pettis, deve invece arrivare a un debito comune per garantire gli investimenti e gli assegni di disoccupazione e diventare desiderabile per gli investitori come i titoli americani. Per una volta, la sorpresa è che, sia pure per colpa del virus, l’Unione ha già iniziato i compiti, in cerca di un nuovo equilibrio. L’accusa all’élite è soprattutto una: non tanto aver ingrassato le proprie rendite, ma non aver capito in tempo le conseguenze indesiderate.