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 2021  settembre 15 Mercoledì calendario

Lavoro nero, la sanatoria è fallita

Si chiamava Joban Singh e tutti noi, in Italia, gli dovremmo forse qualche scusa. Perché questo bracciante indiano, sfruttato dai caporali nei campi dell’Agro Pontino e morto suicida a Bella Farnia, nel ghetto dei sikh alle porte di Sabaudia, racconta col suo gesto l’inganno del nostro Stato verso migliaia di migranti e lavoratori in nero: la regolarizzazione promessa e fallita in tempi di Covid, tra grotteschi percorsi burocratici, carenze di personale e, soprattutto, ambiguità politiche.
A sedici mesi dal varo della sanatoria voluta, anche per tutelare la salute pubblica in piena pandemia, dall’allora ministra all’Agricoltura, Teresa Bellanova, solo un terzo delle 207 mila domande di emersione è stato definito dalle prefetture, con gravi ritardi nelle grandi città (Roma, ora segnalata in ripresa dal Viminale, a fine maggio era un caso clamoroso, con due pratiche esaminate a fronte di 16 mila istanze): 60 mila sono stati per ora i sì e circa 11 mila i no, tra dinieghi e rinunce. Altre 64 mila pratiche pendono, in attesa di pareri e integrazioni, a metà strada col ministero del Lavoro. Di questo passo, però, si può andare avanti per anni, in un gioco dell’oca fra troppe competenze. E, soprattutto, è stato mancato il vero bersaglio del provvedimento, che dapprincipio dichiarava l’ambizione di fare emergere oltre 600 mila irregolari in Italia. Solo in agricoltura, secondo l’Osservatorio Placido Rizzotto della Cgil, sono stati 450 mila nel 2020 i lavoratori sfruttati, di cui 180 mila in condizioni «prossime alla schiavitù» (40 mila in più rispetto al 2018). L’85% della sanatoria ha riguardato invece colf e badanti. Ignorati dall’inizio edili e addetti a trasporti, commercio o turismo, il bracciantato agricolo è stato escluso, de facto, dai difetti della normativa.


Contrasti politici
Teresa Bellanova lo ammette ma rilancia, polemica: «Io avrei incluso tutte le categorie, ma ho combattuto da sola, per l’ostilità del premier Conte e della collega Catalfo: l’allora ministra del Lavoro propose che la regolarizzazione si facesse per un solo mese... un insulto a chi voleva emergere». Quali che siano stati davvero i contrasti in una maggioranza forse in parte nostalgica di altre alleanze, l’eccesso di centralità del datore di lavoro nella regolarizzazione s’è rivelato un ostacolo insuperabile in terre di prevaricazione. Così come fuori dalla realtà appaiono il ricorso diretto alle questure (il cosiddetto «secondo canale» della sanatoria) per chi è legato mani e piedi al caporalato o la richiesta di «idoneità alloggiativa» a chi spesso vive nelle baraccopoli. Si è creata insomma una terra di mezzo nella quale il bracciante immigrato (in possesso di ricevuta delle Poste che ne attesti l’attesa del primo permesso di soggiorno) può, sì, lavorare ma deve magari aspettare anche mesi per l’iscrizione all’anagrafe o alla Asl, alla ricerca di chi gli dia una residenza vera o fasulla. «Sì, si poteva fare in modo più semplice, se parte della politica non costruisse una narrazione di paura sui migranti», dice Bellanova: «Avrei voluto subito personale dedicato. So bene che la ministra Lamorgese ha dato indicazioni di priorità alle prefetture, ma per reperire personale è dovuta ricorrere a un bando europeo».


Venuto dal Punjab
La storia di Joban Singh (tredicesimo sikh suicida nei campi in quattro anni) è esemplare. Attratto da un miraggio di normalità, il venticinquenne venuto dal Punjab si rivolge al suo caporale (indiano come lui) convinto che con 150 euro (e 500 circa a carico del padrone) possa mettersi in regola. In fondo, pensa, glielo devono: ha lavorato spesso 26 giorni al mese (con solo 4 giorni registrati in busta paga) per appena 400 euro. I suoi sfruttatori gliene chiedono invece quasi diecimila, un vero riscatto, per accompagnarlo nell’iter di emersione. Quando realizza di essere prigioniero (suo padre è appena morto in India e lui non può andare a onorarlo), Joban si impicca, pochi giorni dopo l’entrata in vigore del decreto-legge che avrebbe dovuto liberarlo.
Marco Omizzolo è il giovane sociologo Eurispes che ha svelato il sistema delle agromafie e del caporalato pontino. Deve vivere sotto tutela, Mattarella lo ha fatto cavaliere al merito. Ha creato il progetto «Dignità - Joban Singh» per garantire assistenza gratuita agli schiavi dei campi. Dice che è «un tradimento dello Stato chiedere a qualcuno di farsi avanti, rischiando, e poi girargli le spalle». La pandemia ha aggravato la situazione da Nord a Sud, azzerando o quasi i controlli degli ispettori del lavoro. Secondo l’Osservatorio di Tempi Moderni oltre 300 mila braccianti immigrati lavoravano, prima del Covid, meno di 50 giornate l’anno stando ai dati ufficiali (la stima reale è il triplo). Nel 2020 il numero ufficiale delle loro giornate di lavoro s’è ridotto del 20%, a fronte di una diminuzione della produzione agricola del 3,2 % (fonte Istat) e della scomparsa dai campi dei bulgari e dei romeni causa restrizioni sanitarie. La filiera è stata palesemente sostenuta con l’aumento delle ore in nero. «Molto lavoro è stato fatto con il caporalato nei ghetti», conferma la Bellanova: «Del resto non si può scaricare tutto sugli imprenditori agricoli. Ci sono delinquenti, sì, ma anche tante microimprese che purtroppo reggono solo se non rispettano i contratti». È la tirannia delle grandi filiere: «Se al supermercato spendi troppo poco, dovresti farti qualche domanda».
Il ghetto strutturato significa caporalato come «mediazione della manodopera, che precede tutte le altre forme di servizio criminale», osserva Leonardo Palmisano, che da anni studia in Puglia queste marginalità: le mafie ci si saldano. L’European House Ambrosetti calcola in Italia circa 80 distretti agricoli gestiti da caporali. Un’indagine parlamentare delle Commissioni Lavoro e Agricoltura riconosce che l’impianto della legge 199 del 2016 (nata dopo la morte della bracciante pugliese Paola Clemente) è «largamente inattuato» nella prevenzione del fenomeno e auspica una riforma «delle modalità d’ingresso degli stranieri per ragioni di lavoro nel nostro Paese». Il nodo è questo, la sovrapposizione colpevole di due questioni, lavoro nero e immigrazione illegale, che rende entrambe insolubili, come osservano i giuslavoristi William Chiaromonte e Madia D’Onghia: la sanatoria (siamo all’ottava) è, in assenza di una regolazione seria dei flussi (bloccata da eterne polemiche di fazione), «il principale strumento di politica migratoria e di legalizzazione della presenza straniera». Per citare Massimo Livi Bacci, i nostri governi hanno «rinunciato a governare l’immigrazione» per affidarsi a ciclici provvedimenti che assorbano chi si trova, irregolarmente, tra noi.


Corridoio di speranza
Ora qualcosa si muove. Un Tavolo Caporalato al ministero del Lavoro ha elaborato «linee guida» per «tutelare e prendere in carico» le vittime di sfruttamento in agricoltura, agevolandone l’integrazione. Il dossier è stato trasmesso al governo a fine agosto per andare in Conferenza unificata (con Regioni, Province, Comuni, Comunità montane...): non bisogna lasciarsi scoraggiare dall’infinità di passaggi necessari a un Paese dalla capacità decisionale frammentata in mille rivoli. Una buona idea di base c’è, ed è creare un corridoio facile e protetto per chi voglia uscire dalla schiavitù senza passare per le forche caudine di caporali e padroni. Che porti davvero a un concreto passo di civiltà in campagne come quelle che hanno rubato la vita a Joban Singh è, dopo tante parole al vento, difficile da credere. Ma è il minimo da sperare.