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 2021  settembre 14 Martedì calendario

Intervista a Luciano Violante

«Ero appena diventato magistrato». Luciano Violante fa un salto all’indietro nel tempo, agli anni in cui indossava la toga. «Condannammo un tizio a 7 anni. E io chiesi agli altri autorevoli colleghi: Ma sette anni di che cosa?».
Onorevole Violante, cosa le dissero gli altri magistrati?
«Mi guardarono più o meno come un marziano. Ma io avevo fatto il volontario nelle carceri, conoscevo il sistema e intendevo dire una cosa elementare: sette anni di pena possono essere faticosi ma sopportabili, oppure drammatici, quasi insostenibili se per esempio finisci nella prigione dove le celle sono sovraffollate e manca l’acqua corrente. Ecco, io credo che nella magistratura, di cui ho fatto parte fino al 1981 quando mi sono dimesso perché ero diventato parlamentare, manchi talvolta questa attenzione agli altri, a tutti gli altri».
Attenzione agli imputati?
«A tutti. Agli imputati. Agli avvocati. Ai testimoni. Se posso usare una parola semplice e profonda, direi che a volte manca il rispetto».
Un pizzico di umanità?
«Si. D’altra parte il modello architettonico...»
Architettonico?
«Sì. Se ci fa caso, quando entra in un tribunale lei sale le scale. Vuol dire che i giudici sono più in alto del cittadino e a volte si ergono sul piedistallo della loro superiorità, qualche volta perfino su quello dell’arroganza».
Onorevole, una volta lei era considerato il capo del presunto partito delle procure. Oggi lei bacchetta gli ex colleghi.
«Un merito che non ho. Ci sono stati tre passaggi nella storia recente della magistratura, che mostrano una evoluzione preoccupante».
Il primo?
«La difesa dell’indipendenza della magistratura, a partire dagli anni Sessanta. È stata una battaglia sacrosanta, perché il potere politico e quello economico cercavano di condizionare la magistratura. Così le toghe hanno affermato la propria autonomia rispetto agli altri poteri, ma a questo punto non ci si è più fermati».
Siamo al secondo passaggio.
«Appunto: l’autogoverno. Che non è scritto da nessuna parte, tantomeno nella Costituzione, e invece i giudici hanno cominciato a riempire tutte le caselle del Csm e del ministero e a decidere la politica giudiziaria».
La stazione successiva?
«L’autoreferenzialità».
Il parlarsi addosso?
«Il concepirsi come una parte dello Stato per la quale non valgono le regole che invece la magistratura richiede agli altri. E infatti l’approdo è quello di un corpo separato dello Stato che in qualche modo afferma: Io sono il guardiano della purezza, io sono il guardiano della trasparenza, nessuno può venire in casa mia a contestarmi qualcosa. Penso ad alcune circolari del Csm svuotative delle leggi».
Questo processo comincia con Mani pulite?
«Più che di Mani pulite parlerei di manipulitismo, di epigoni di Mani pulite. In ogni caso, questa mutazione del ruolo della magistratura nella società è avvenuta per gradi, nell’arco di decenni, ed è stata favorita dalle emergenze nazionali: la mafia, il terrorismo, la corruzione. Ventuno magistrati sono stati uccisi nel Dopoguerra, un numero che non ha paragoni in Europa. Progressivamente la politica ha lasciato il campo alla magistratura e la magistratura se lo è preso».
Luciano Violante è una delle personalità più importanti della sinistra italiana, parlamentare per molte legislature e figura di riferimento per generazioni di elettori. Ecco perché la sua riflessione colpisce ancora di più. Violante ha letto le parole di Silvio Berlusconi, pubblicate dal Giornale, sul valore del garantismo -«Perseguire o condannare un innocente – scrive il Cavaliere – è il peggior crimine che lo:stato possa commettere» – e l’intervista a Carlo Nordio; per l’ex pm veneziano occorre anzitutto separare le carriere.
Violante mette invece l’accento sull’etica, al centro del suo ultimo saggio Insegna Creonte, pubblicato dal Mulino: «La prima questione è l’etica professionale».
I magistrati si sono, come dire, allargati?
«Pensiamo alla trattativa Stato-mafia. È sacrosanto punire i colpevoli, se tali sono, non pretendere di riscrivere la storia. Il magistrato punisce chi ha sbagliato, non ha altri compiti».
Invece i giudici, i pm in particolare, sono diventati i sacri custodi della moralità pubblica?
«Alcuni sono stati accecati da una sorta di hybris, qualcosa che sta fra l’orgoglio, la superbia, la tracotanza, talvolta l’arroganza. Naturalmente, parliamo di minoranze ma sono minoranze che grazie all’intreccio con la comunicazione, creano una opinione: prima c’era la percezione si trattasse di un mondo di eroi, oggi prevale la diffidenza. E dobbiamo fare di tutto per superare questa immagine negativa perché la magistratura è fondamentale per il buon funzionamento di una democrazia».
Intanto, si fanno faticosamente strada le riforme. Cosa pensa di quella voluta da Marta Cartabia?
«Mi pare un buon inizio perché ha un’idea di cosa sia il processo».
Ma ha scontentato un po’ tutti.
«E invece ci sono innovazioni interessanti».
Una fra le altre?
«La scelta di dare al giudice che emette la sentenza il potere di determinare la pena in concreto. Prima questa fase era affidata alla magistratura di sorveglianza, in un secondo momento, ora si anticipa: il giudice ha a disposizione diverse sanzioni, non solo il carcere, e questo accresce la sua responsabilità, lo costringe ad entrare nel concreto di quella situazione».
La prescrizione?
«Mi pare si sia fatto un passo in avanti. I processi non possono durare troppo a lungo e anche su questo versante si devono studiare attentamente le cause dei ritardi: come mai con le stesse leggi ci sono distretti di corte d’appello in cui i tempi della giustizia sono accettabili e altri in cui sono intollerabili?».
Ma l’improcedibilità, adottata dalla Cartabia per i processi fuori tempo massimo, la convince?
«È una soluzione di mediazione fra le diverse posizioni; i 5 Stelle altrimenti non l’ avrebbero votata; per il momento va bene. Infine ci sono altri due snodi che vanno affrontati al più presto: i magistrati funzionari del Csm e le modalità del processo disciplinare».
Cominciamo dal Csm.
«I funzionari sono magistrati e sono stati fatalmente chiamati perché legati a questa o quella corrente. Questa liaison deve finire: i funzionari devono essere professionisti selezionati con concorso pubblico, come i funzionari parlamentari».
La Disciplinare?
«È bene che rimanga dov’è per il primo grado. E solo in quello».
In appello?
«Dobbiamo creare un’Alta corte».
La sua composizione?
«I membri potrebbero essere nominati per un terzo dal Presidente della Repubblica, per un terzo dalla magistratura e per un terzo dal Parlamento. Quest’Alta corte, a mio parere, dovrebbe occuparsi anche delle controversie sulle nomine e più in generale delle querelle amministrative che oggi ingolfano i Tar. Non solo: oggi il Csm decide, che so, la nomina del procuratore della repubblica di Milano in un’udienza pubblica, trasmessa integralmente da Radio Radicale».
Non è un omaggio alla tanto sbandierata trasparenza pubblica?
«No, è una finzione come dimostra il libro di Luca Palamara. Il modello non deve essere quello del Parlamento che si riunisce in seduta pubblica, ma quello del cda di un ministero che discute e decide in modo riservato. La riservatezza è spesso un valore; la pubblicità a volte è una ipocrisia».