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 2021  agosto 13 Venerdì calendario

In morte di Nino Milazzo

Francesco Merlo, la Repubblica

Ricevette due cartelline dattiloscritte, capì che sarebbero diventate l’articolo più famoso del giornalismo italiano e le mandò in tipografia inventando un titolo che ancora oggi è una bandiera: “I professionisti dell’antimafia”. Nino Milazzo, morto a Catania a 91 anni, già in quel 1987, da vicedirettore delCorriere della Sera, di suo scriveva sempre meno, preferendo suggerire agli altri ciò che avrebbe potuto fare, e meglio, egli stesso. E sto parlando di Tobagi e di Biagi, della Fallaci e de Bortoli, di Ronchey e Ostellino, ma anche di Vittorio Feltri e Ugo Stille, Antonio Ferrari, Chierici, Padellaro, Purgatori… Non è facile spiegare Nino a chi non lo conosce. E forse bisogna partire dalle due qualità che nei giornali sono essenziali a un direttore d’orchestra: il disinteresse e l’autorità. Quest’ultima, in un mestiere in cui circolano gli eredi dei gerarchi, capiservizi e caporali, era in lui il tratto cortese da cavaliere antico che rendeva naturale mettersi sotto la sua bacchetta. E a tal punto arrivava il suo disinteresse che a un passo dal grande successo, quello finale, Nino ogni volta lo buttava via. Preso infatti da un sordo, invincibile “rodìo”, tornava in Sicilia come si torna dentro un’ossessione. E violava pure un tabù perché, a rigore, un siciliano di provincia (Biancavilla) può tornare a casa solo quando ha conquistato il Continente. Invece Nino, come dicevo, interrompeva l’impresa ogni volta che era sulla buona strada per concluderla. A Catania andò a fare il condirettore di La Sicilia dove era stato, con Candido Cannavò e Pippo Fava, uno dei tre campioni, tre amici scanzonati con l’idea perdente di rifare non il mondo, ma la Sicilia, cambiando il tempo a tutte le sue favole: non più “c’era una volta”, ma “ci sarà una volta”. Nino stava in Sicilia da combattente e tra i suoi eroismi c’era quello di vivere di eleganza, di abiti e sentimenti, di ragionamenti lievi e saggi in una città sbracata di mafia e di arraffare che dell’eleganza aveva perso il codice minimo. Perciò, Nino, con il pelo arruffato, di nuovo partiva per la sua Milano che sempre ri-accoglieva quel giornalista che aveva fatto della politica estera una disciplina rigorosa per studi e per viaggi. Nei suoi editoriali – diceva Montanelli – pur così pacati e competenti «si sentiva, lontano, il rombo del tuono».
A differenza di Sciascia che esportava la Sicilia nel mondo, Nino voleva importare il mondo in Sicilia, sino a fare della sua Catania una capitale dell’Occidente liberale. E infatti così lo ricorda Maurizio Molinari che lavorò con lui all’Indipendente dove Nino era stato chiamato come vicedirettore da Ricky Levi: «Nino era il volto di una Sicilia tosta, granitica, protagonista della vita italiana e del progetto europeo». Trasformò – pensate – una tv catanese, Telecolor, in una specialissima postazione di giornalismo e di scuola di giornalismo, come avere la Bbc e la Nieman in via Etnea. Forse dunque è morto ieri l’ultimo eroe romantico del giornalismo anglosassone italiano, con un angolo d’anima coltivato a basilico.

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Antonio Ferrari, Corriere della Sera
Come tutti, e in particolare come giornalista, so che è impossibile vivere senza il cellulare. E so molto bene che ora, quando squilla, quasi sempre — per uno della mia età — è per comunicarmi una triste notizia. L’ultima mi ha colpito il cuore, perché Nino Milazzo, che è stato vicedirettore del nostro «Corriere della Sera» (dal 1985 al 1987), non era soltanto una prestigiosa guida professionale, ma un caro amico. Si è spento a Catania nella notte tra mercoledì e giovedì, aveva 91 anni (era nato a Biancavilla il 16 gennaio 1930). Sapevo dei suoi guai di salute, come di quelli della moglie, che è scomparsa pochi giorni prima di Nino. La notizia mi ha davvero sconvolto, anche se purtroppo la temevo. Ho sempre cercato di evitare la retorica, non è nella mia natura. E quando muore un grande collega cerco di ricordare episodi di vita vissuta assieme. Abbiamo avuto qualche dissapore sindacale, ai tempi della ruvida direzione del grandissimo Alberto Cavallari, ma di Nino mi colpivano la serietà e il rispetto delle competenze di ciascuno.
Un giorno il successore di Cavallari, Piero Ostellino, mi chiese di andare a Venezia per un convegno dell’Aspen. Tra i presenti vi erano il cancelliere tedesco Helmut Schmidt e il ministro Gianni De Michelis. Era con me la mia compagna di allora Agnes Spaak, e mi venne in mente che lo zio di Agnes, Paul Henry, era un grande amico del cancelliere, oltre a essere tra i creatori dell’Unione Europea. La mia compagna scrisse un biglietto che fu recapitato a Schmidt per chiedere un’intervista. Intervista, ritenuta quasi impossibile, che il cancelliere, incuriosito, accettò. Era luglio, della Germania sapevo poco o niente. Chiamai Nino che, entusiasta dello scoop, mi dettò pazientemente le domande principali e disse: «Ostellino ed io siamo felici. Grazie Antonio. È un gran colpo». Due giorni dopo l’intervista apriva il «Corriere», e il seguito era in terza pagina, la pagina nobile del quotidiano di allora.
Ricordo l’eccitazione di Nino quando gli dissi che mi era stata concessa un’importante intervista con il dittatore comunista romeno Nicolae Ceausescu. E poi lo struggente ricordo personalissimo di quando Nino, con i miei colleghi Sandro Manzini, allora caporedattore, e Mino Vignolo, inviato speciale come chi scrive, vennero a Genova per vedere con me la partita tra il Milan e la Sampdoria. La mia cara mamma, piacentina e donna molto semplice, aveva preparato piatti della cucina emiliana, come le caramelle, cioè pasta ripiena di verdura e carne tritata. Milazzo, gran signore, si presentò con un gigantesco mazzo di fiori. Lo porse alla mia mamma, felice di tanta gentilezza. Nino sorrise: «Signora, cosa vuole, noi siciliani siamo terroni». Mia madre, senza rendersi conto della gaffe rispose: «Terrone lei? Non l’avrei mai detto dottor Milazzo». E lui «Sì sono proprio terrone. Mi perdoni». Si finì tra le risate prima di andare allo stadio.
Con Nino ci siamo frequentati anche dopo la sua uscita dal «Corriere». A Milano ha conosciuto mia moglie greca, commentando: «Molto bella. Lei mi fa pensare a Irene Papas giovane». Ci siamo incontrati più volte anche per il premio dedicato a Maria Grazia Cutuli, a Santa Venerina, non lontano da Catania, con l’organizzazione curata da Francesco Faranda. Nino era sempre lui, sempre signore, sempre attento. Così sono i veri galantuomini. Dovunque tu sia, guidaci ancora, caro Nino. Il «Corriere» ha sempre bisogno di te.